Il generale: «Guardando all’Ucraina è chiaro che i carri armati sono ancora fondamentali, non credo che la Russia abbia le capacità militari di allargare il conflitto ai Paesi baltici»

di Federico Capurso

La guerra in Ucraina, così come le tensioni che si allargano oltre i confini della guerra in Palestina, per il Generale Vincenzo Camporini (nella foto), ex capo di Stato maggiore della Difesa, «ci mettono di fronte a un’evidenza: possiamo utilizzare tutta la tecnologia che abbiamo a disposizione, ma il concetto di massa non può essere archiviato». In altre parole, agli eserciti servono uomini. Ma è necessario anche un cambio di approccio: «Dobbiamo preparare le Forze armate a un futuro diverso da ciò a cui le abbiamo preparate negli ultimi 30 anni. Il ministro della Difesa Guido Crosetto, nell’intervista data al vostro giornale, ha mostrato di esserne consapevole. Ora dobbiamo rendere consapevole il resto del Paese».

In che modo dovrà cambiare la nostra visione militare?

«Finora abbiamo usato Forze armate di terra a bassa intensità, per operazioni di peace keeping dove non servono capacità ad alta potenza, uso di blindati, corazzati e artiglieria pesante. Questo è quello a cui eravamo abituati. Guardando all’esperienza ucraina, invece, abbiamo improvvisamente scoperto che i carrarmati e l’artiglieria sono ancora fondamentali».

È una buona idea quella di avere dei riservisti?

«È un concetto sano, perseguito anche da Paesi pacifici come la Finlandia, dove c’è un servizio di leva al termine del quale si torna a casa e ogni tanto si viene richiamati in servizio per qualche settimana di addestramento nella propria unità. Oggi la Finlandia, con meno di 6 milioni di persone, è in grado di mobilitare 300mila combattenti nell’arco di poche settimane. I riservisti offrono quindi potenzialità significative. Poi tutto dipende da come si imposta la Riserva militare».

Cosa intende?

«Si può avere una Riserva utile come quella finlandese, dove un giovane richiamato può andare a combattere. E se ne può avere una costituita da un nucleo di personale civile che in caso di necessità affianchi le Forze armate per liberarle da incombenze logistiche e questa, è evidente, non è la stessa cosa».

Ma in Finlandia c’è l’obbligo di leva. Dovremmo reintrodurlo anche qui in Italia?

«È vero, noi la leva obbligatoria l’abbiamo sospesa, e fu un’ottima decisione perché non era più all’altezza dei tempi che si vivevano all’inizio del secolo. Riattivarla però non mi sembra possibile. Presenterebbe enormi difficoltà, perché in pochi la accetterebbero e per l’enorme complessità dal punto di vista pratico e finanziario. Abbiamo però molti giovani che hanno fatto il servizio militare volontario e poi non hanno proseguito la carriera nelle Forze Armate».

Il ministro Crosetto dice di dover preparare le Forze armate anche a un eventuale attacco sul nostro suolo. Quanto è lontana questa ipotesi, alla luce della guerra in Ucraina?

«Se anche intendiamo come “nostro” il suolo di tutti i nostri alleati, in questo momento sono piuttosto scettico. Le capacità militari russe sono state molto logorate dalla guerra in Ucraina, non credo abbia le capacità militari per allargare il conflitto ai Paesi baltici o alla Polonia. A volte, certo, la volontà umana supera la logica e noi, in ogni caso, non possiamo rinchiuderci nel nostro guscio».

Intanto si aggiungono nuovi fronti di guerra. Dopo il nostro impegno a sostegno dell’Ucraina, ora parte l’operazione militare nel Mar Rosso contro gli Houthi.

«Gli assetti militari che parteciperanno all’operazione europea saranno essenzialmente di scorta. Sono chiamati ad abbattere eventuali ordigni lanciati dalla costa yemenita verso le navi mercantili europee».

Non possiamo intraprendere azioni militari offensive, ma fin dove si può spingere il concetto di difesa?

«Si può usare uno scudo per neutralizzare i missili che vengono sparati contro di noi o contro chi dobbiamo proteggere, ma continuerebbe a esistere la minaccia, oppure ci si può difendere andando a colpire l’artiglieria che è alla sorgente del fuoco, facendo venire meno quella minaccia. È sempre difesa, nel primo caso “passiva”, nel secondo “attiva”».

Bombardare le basi degli Houthi in Yemen, invece, sarebbe impossibile?

«Gli Houthi non rappresentano lo Stato dello Yemen. Sono un gruppo di ribelli, per quanto forte e in grado di conquistare un territorio ampio di quel Paese. Le categorie giuridiche da applicare sono quindi diverse rispetto a quelle che si userebbero per l’ostilità verso uno Stato riconosciuto dalla comunità internazionale. È una situazione simile a quella che si presentò con i pirati somali. Lì, al largo della Somalia, abbiamo ancora una missione navale dell’Ue e una della Nato che servono a proteggere i mercantili e le altre navi di passaggio. Ci fu un lungo dibattito sull’opportunità di andare a colpire le basi di partenza dei pirati, ma alla fine si fece molto poco, nulla di sistemico. È un tema da trattare con delicatezza, anche dal punto di vista giuridico».

Fonte: La Stampa

 

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