di Lorenzo Bianchi

Un foglio anonimo in un raccoglitore. Fino all’ultimo il regime era convinto di evitare il collasso. Il 19 agosto, alla vigilia dell’assalto finale a Tripoli, la “camera della sicurezza della capitale”, una sezione del ministero della difesa, chiedeva all’impresa Germa 300 container “al più presto” per stiparci gli arrestati.

Il documento è finito nelle mani di Abdel Karim Gdura, 58 anni, responsabile degli acquisti e degli apparati tecnici del ministero dell’interno. Un alto funzionario che ora esibisce una solida vocazione “rivoluzionaria” e che sostiene di essersi precipitato nel palazzo della Mukhabarat, l’intelligence, di Tripoli assieme ad altri 5 tuwar, combattenti della rivoluzione del quartiere, per salvare dalle fiamme lealiste documenti che scottano.

“Sono sparite solo le registrazioni audio”, riassume compiaciuto della sua efficienza. I container perentoriamente richiesti potevano diventare l’anticamera della morte. Quasi sempre l’unica presa d’aria erano i fori dei proiettili sparati dai fedelissimi di Gheddafi contro le lamiere per permettere alle loro vittime di respirare.

Il 6 giugno a Khoms, vicino a Leptis Magna, in un’arroventato e infernale parallelepipedo di ferro sono stati ammassati 29 oppositori. Diciannove sono morti di caldo. Abdel Kharim esibisce un’altra grida. Il 12 luglio dallo stesso ufficio parte un ordine perentorio a tutti i  volontari dei Comitati Rivoluzionari. Debbono mettersi a disposizione della  32° Brigata di Khamis Ghedddafi, l’elite militare del regime, per chiudere tutti gli accessi alla capitale. Il regime si preparava a replicare l’operazione che ha provocato l’agonia di Misurata prima che gli insorti riuscissero a sferrare i colpi di maglio che hanno mandato in frantumi il lungo assedio .

Abdunnasser Ali al-Buni, 55 anni, presidente del centrale quartiere Suk al-Jumaa, un sobborgo che è stato fonte di continui grattacapi per gli uomini della sicurezza, calcola che gli Shahid, i  “martiri”, nella sua zona siano stati almeno 200 a partire dal 17 febbraio, il giorno della rivolta di Bengasi.

“Il secondo è stato mio fratello Yussef Ali, freddato proprio davanti al cimitero con una raffica di antiaerea. Aveva 49 anni”. I numeri ufficiali delle persone scomparse in Libia dopo il 17 febbraio sono ancora ipotetici, frutto di stime più che di una statistica.

Il Consiglio Nazionale di Transizione, il governo degli insorti, è convinto che i “desaparecidos” siano quarantamila. A Zenten si lavora già per identificare i resti trovati nella prima fossa comune.

Abdel Karim Gdura lascia filtrare altri rapidi lampi di repressione: “Nei primi quindici giorni dopo il 17 febbraio sono state bloccate 20 mila persone nella sola Tripoli. Qui, in questo ufficio, venivano conservate mappe molto dettagliate della città. Ogni edificio era contraddistinto da un numero.

La Mukhabarat sapeva quante famiglie abitavano nel palazzo e di quante persone si componeva ogni nucleo famigliare. C’erano informazioni sugli orientamenti politici degli adulti, comprese le donne che non erano casalinghe. Erano molto dettagliate soprattutto sui soggetti più istruiti, sulle persone che viaggiano, che studiano, che leggono”. Gli altri non meritavano sforzi e perdita di tempo. Abdel Karim  dimentica per un attimo il suo nuovo ruolo rivoluzionario e riassume la convinzione del regime in una frase: “Sono quelli che guardano la tv e ci credono”. (6 ottobre 2011)

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