di Monia Savioli

Herat, 15 giugno 2011. Povertà e condizioni familiari estreme per violenze e soprusi. Queste sono le molle principali che spingono le donne afgane a compiere reati. Furti, prostituzione imposta, consumata soprattutto all’interno delle mura domestiche e casi di fughe dalla casa del marito sono i motivi più frequenti per giustificare l’arresto.

Attualmente, nel carcere femminile di Herat, che serve non solo l’omonima provincia ma anche quelle limitrofe di Farah, Ghor, Badghis, Chagcharan, sono recluse 150 donne. L’età mediamente varia dai 25 ai 30 anni. Per alcune, nei casi di abbandono del tetto domestico, sono previsti 3 anni di reclusione, spesso ridotti dalle amnistie che periodicamente il presidente Karzai delibera. Per altre la sentenza è più dura e arriva fino ai 20 anni inflitti per l’uccisione del marito. Un caso presente, quello di una donna esasperata che spinta alla violenza dalla stessa violenza subita, ha tagliato la testa al marito a furia di coltellate.

Fino al 2009 il carcere femminile era collocato in una struttura fatiscente “dove – spiega il direttore del carcere, il generale Abdul Majid Sadeqi – neppure gli animali avrebbero cercato ricovero”.Il Prt italiano è intervenuto e grazie ad un cospicuo intervento edilizio ha costruito la nuova palazzina. Ora la condizione delle carcerate e dei figli che portano con loro fino a 5 anni per i bambini e 7 per le bambine, è nettamente migliorata.

Continue donazioni di strumenti utili e di elementi di arredo contribuiscono a far crescere la struttura che già conta di una piccola biblioteca, della lavanderia, dell’asilo interno e di molti spazi dedicati ai laboratori, da quello di inglese ai corsi di internet, dalla produzione di capi di abbigliamento sartoriali e tappeti, a quella di gioielli e, addirittura, di parrucchiera ed estetista. C’è anche un campo di basket esterno dove le donne si ritrovano per fare attività fisica. La socialità è garantita dalle stanze multiple, ampie e dotate di televisore.

Per le detenute il momento di poter incontrare i parenti arriva ogni lunedì, giornata di visita. Roya ha 23 anni. E’ rinchiusa nel carcere femminile da oltre 24 mesi e gliene restano molti altri, in tutto 18 anni,  prima di uscire e riabbracciare i due figli maschi di 7 e 9 anni ora allevati dal marito e dalla sua famiglia. Roya è dentro per aver ucciso. O, meglio, lei dice di non averlo fatto mentre altri affermano il contrario. E’ successo una notte, quando un conoscente è entrato nella sua casa mentre il marito, sposato quando lei aveva appena 11 anni,  non c’era ed ha tentato di aggredirla. I vicini sono accorsi e nella colluttazione c’è scappato il morto. E tutti hanno dato la colpa a lei, considerata non solo omicida ma anche colpevole di tradimento.

“Non hanno ascoltato quello che avevo da dire – mi spiega guardando l’orizzonte ma con il piglio sicuro di chi non ha nulla da temere. “Non mi hanno ascoltata neppure al processo. La giustizia afgana è troppo dura con le donne. Anche altre detenute la pensano allo stesso modo”. Nel carcere Roya ha trovato nuove amiche. Gioca a pallavolo e si dedica alla sartoria. Lei voleva proseguire gli studi, andare all’università “Nei prossimi 18 anni di carcere – lamenta – dimenticherò quello che ho studiato fino ad ora”. I genitori di Roya vivono a Kabul. Quelli che la vanno a trovare ogni lunedì sono i parenti del marito che vive a Herat con la famiglia.

Il giorno di visite è un momento delicato, durante il quale a volte i parenti cercano di far passare l’oppio. Mediamente ogni anno, almeno un paio di donne viene portato al centro di cura per le tossicodipendenze legato al carcere che nel suo insieme, parte maschile inclusa, ospita 2500 detenuti. Fra di loro anche terroristi compresi quelli arrestati dopo l’attentato inflitto al Prt italiano. 400 sono i posti disponibili nella clinica, occupati da drogati trovati spesso per strada, consumati dall’uso dei cristalli di oppio. Tanti sono i tentativi fatti e le modalità scelte dai visitatori per riuscire a portare la droga all’interno del carcere. Lo inseriscono in ovuli che poi ingoiano, lo nascondono nelle scarpe dei bambini, lo occultano all’interno di patate scavate e poi incollate. L’estro è tanto, ma molti sono anche i controlli.

“Noi dobbiamo far rispettare le nostre regole – afferma lapidario il generale Sadeqi. “Di giorno lavoro e di notte penso a come fare per riuscirci”. Grazie al Prt italiano, che ha finanziato anche la costruzione di una scuola per 300 studenti sempre a servizio del carcere, l’acquisto di 21 telecamere per la videosorveglianza e l’edificazione di 20 alloggi resi disponibili per gli ufficiali che lavorano nella struttura, Sadeqi con orgoglio precisa che quello di Herat “è stato nominato un carcere modello”. E non smette di ringraziare i partner italiani.

Ogni sera il generale aggiorna il suo “libro d’onore” dove annota le storie ed i fatti che ruotano attorno alla struttura. Le storie di Roya, della donna che ha staccato la testa al marito a furia di coltellate, di quelle povere anime costrette dai mariti per una manciata di oppio a vendere il loro corpo sfidando tutti i principi religiosi non estremisti che in Afghanistan rappresentano il pilastro della vita sociale e morale per eccellenza, e le storie di tanti altre e altri. Un mosaico di vite, le stesse che contribuiscono a esprimere la complessità della realtà afgana.

 

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