È quando riesce a godersi qualche ora di pacifica vita in famiglia, quando si toglie la mimetica e il basco, che si mimetizza davvero. Con un bel loden e la sciarpa english style, il beagle Sicki al guinzaglio, gli occhiali leggeri da vista. Un signore distinto che passeggia per le strade di Banditella, prende un caffè al Cotton, accompagna la moglie, insegnante, a fare la spesa. E a tavola chiacchiera amabilmente con i figli. Il fisico guerriero, la volontà di ferro, la schiettezza che non si piega alla diplomazia in quei momenti rimangono nascosti sotto quel loden, in quella parentesi di tranquillità borghese, nel limbo della normalità domestica. Perché per il generale Marco Bertolini, 55 anni, nato a Parma sotto il segno dei Gemelli ma livornese da oltre trent’anni, tutto il resto, quello che sta fuori dalla bella e numerosa famiglia e dalla vita privata, è trincea. Guerra, vera e figurata, ossia politica, perché quello delle missioni all’estero è un terreno minato.

E qualche polemica, prima o poi, viene sempre fuori quando si tratta di guerre lontane e soldati italiani. Tanto lui, che dopo una lunga e pluridecorata carriera spesa in gran parte nei reparti della Brigata Folgore, è diventato giusto da poche settimane capo di stato maggiore del comando Isaf (la missione della Nato in Afghanistan), chi le bombe le ha viste esplodere per davvero, delle polemiche non ha certo paura. Anzi.
 Insieme al physique du rôle, il caratteraccio, inteso come l’abitudine a dire pane al pane e vino al vino senza tanti complimenti, fa parte della sua fama, l’avversione per le manfrine e per i compromessi anche. Quindi nessuno si è stupito per quella lettera inviata l’altro giorno al Corriere della Sera, poche parole, ma ben scritte, pesanti come il piombo e pungenti come spilloni. Buttate giù per rispondere al presidente del consiglio Silvio Berlusconi e a una delle sue battute: «l’esercito fa la guardia al deserto dei Tartari», come dire che i suoi ragazzi, e quelli della altre missioni, se ne stanno lì a non far nulla, inutili, solo costosi. Figuriamoci se uno come il generale Bertolini poteva far finta di niente.
 Così, da Kabul, dove si trova in questo periodo, ha messo insieme quelle poche righe finite prima tra le lettere al Corriere della Sera ma poi rilanciate e diventate un piccolo manifesto dell’orgoglio militare.

«L’affermazione attribuita al presidente del Consiglio secondo cui l’Esercito farebbe la guardia al deserto dei Tartari – ha scritto Bertolini nella lettera al Corriere, firmandosi solo con nome e cognome, senza grado e qualifica – avvilisce i soldati che, come me, operano fuori area, nonchè quanti in patria, senza munizioni, senza carburante e senza parti di ricambio per i mezzi si preparano a sostituirci. Le scrivo, amareggiato, dall’avamposto della Fortezza Bastiani in Afghanistan».

In Rete, sui blog e sui forum, sui giornali, suo malgrado il generale Marco Bertolini è tornato ancora una volta alla ribalta. Anche se non ci sono stati altri interventi né interviste dopo quel brevissimo sfogo: «La questione è chiusa, il generale ha detto quello che doveva dire, noi siamo tutti con lui» dicono dalla base di Kabul. Tutti con lui, come sempre. Perché il generale non solo sa combattere e affrontare la guerra vera ma è un personaggio, la sua storia una storia da film, di lavoro duro e scelte difficili, di gloria e di patate bollenti.

La gloria sta per esempio in quel tuffo in un fiume gelato nel Kosovo, nella medaglia d’oro guadagnata da giovane ufficiale in Libano, nei suoi rapporti con le “sue truppe” e con i paracadutisti in genere, che lo condiderano un mito. Le patate bollenti, ci sono state anche quelle. Quando polemizzò con D’Alema, allora presidente del Consiglio, alla vigilia della guerra nel Kosovo, Bertolini era colonnello, comandava gli osservatori della Nato in Macedonia.

«I raid – disse – non risolveranno il problema, dopo le bombe deve sempre arrivare un soldatino con il suo bravo fucile in mano, ma attenzione, serve per prendere un territorio, non per dare la pace. Quella mi spiace, non è il mio lavoro».

Altre patate bollenti: il caso delle foto pubblicate da Panorama che documentavano torture e violenze sessuali commesse ai danni dei somali, il caso del giovane Emanuele Scieri trovato morto a Pisa, vittima di nonnismo, nella caserma dei paracadutisti Gamerra. Nel primo caso Marco Bertolini polemizzò con il ministro Andreatta, che aveva segnalato una certa omertà tra gli ufficiali della Folgore.

«Omertà è un termine che non mi piace, normalmente si usa in altri ambienti e in altre occasioni».

Nel putiferio di Pisa lui arrivò in un clima tesissimo, dopo che furono rimossi i comandanti, e uno dei suoi primi annunci fu «non cambierò le regole dei miei predecessori», e il senso era nessuno conti su di me per sparare sull’immagine dei paracadutisti. Ora, pensare a questo eroe della divisa che si dice “amareggiato”, immaginarselo nella notte di Kabul davanti al computer a sfogarsi con quella letterina breve breve, furioso eppure ironico (vi scrivo dall’Avamposto della Fortezza Bastiani, quella del Deserto dei Tartari, in Afghanistan), fa persino un po’ di tenerezza. E da lontano, guardando verso oriente, sembra di vederlo davanti a quel computer, ma con il cappotto di loden e la sciarpa più che con la divisa. Indignato come soldato, anche per i suoi soldati e indignato come uomo. Perché una battuta sbagliata, soprattutto se viene da un presidente del Consiglio, può far danni e ferire. Più di una granata.

Cristiana Grasso , 1 febbraio 2009

Fonte:  Il Tirreno

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