In prima serata, durante il programma “Uvdà” della giornalista televisiva Ilana Dayan, è andata in onda la verità sullo strike d’Israele all’Iran. In un giorno imprecisato del 2010, il premier Benjamin Netanyahu, assieme al ministro della Difesa Ehud Barak, ordina all’esercito il livello “P+”, sta per attacco alle centrali atomiche iraniane. Il raid è sventato per la dura opposizione dell’allora capo di stato maggiore, Gabi Ashkenazi, e del capo del servizio segreto, Meir Dagan. Quest’ultimo, che ha definito “stupida” l’idea di bombardare l’Iran, con Netanyahu solleva la “legalità” dell’ordine, dicendo che la decisione di andare in guerra va presa dalla maggioranza del gabinetto di sicurezza. Ashkenazi porta a giustificazione l’impreparazione delle forze armate a un attacco a tanti chilometri di distanza.

Fu in quell’occasione che si ruppero i rapporti fra i politici e l’esercito, fra Netanyahu, Barak e gli ex capi di stato maggiore, del Mossad e degli 007 militari. Barak ha confermato il rapporto di Ilana Dayan: “Al momento della verità, la risposta fu che non erano in grado”, ha scandito Barak, alimentando un dibattito sulla crisi di autorevolezza del più agguerrito e peculiare esercito del mondo. Commenta il New York Times che il documentario non a caso va in onda nelle ultime quarantotto ore della campagna elettorale americana, riaprendo una profonda diatriba fra Israele e Stati Uniti su come fermare la bomba iraniana.

Il meeting per lo strike sarebbe avvenuto nell’estate 2010, quando la Casa Bianca ha ripreso il programma “Giochi Olimpici”, voluto da George W. Bush e incrementato da Barack Obama, per manomettere con attacchi cibernetici le centrali iraniane. Dayan ha detto che la censura militare le ha impedito di comunicare la data dell’incontro, perché “troppo sensibile”. Sarebbe stata la prova che la leadership israeliana non ha mai creduto ai programmi clandestini. Nei giorni scorsi Netanyahu e Barak sono entrambi tornati a parlare di strike. In caso di attacco israeliano, ha detto il premier da Parigi, “cinque minuti dopo, contrariamente a ciò che immaginano gli scettici, un grande sentimento di sollievo attraverserebbe la regione”. Barak invece, in un’intervista al Telegraph, ha detto che l’Iran “ha rinviato il momento della verità di otto- dieci mesi”.

Se il bombardamento, la settimana scorsa, del deposito di armi iraniane a Khartum, capitale del Sudan, destinato a rifornire Hezbollah e Hamas, sarebbe stata una prova generale per l’attacco (1.700 km da Israele, stessa distanza fino a Fordo, il bunker nucleare iraniano), gli strateghi della Difesa israeliana si sono riuniti per il maggiore “war game” della guerra all’Iran. L’incontro è avvenuto al National Institute of Security Studies, periferia di Tel Aviv. Data dello strike? “9 novembre 2012”, dopo la corsa per la Casa Bianca. Alla simulazione sono rappresentati tutti: Israele, Iran, Stati Uniti, Russia, Hezbollah, Egitto, Siria, Turchia e Nazioni Unite.

Gerusalemme attacca a sorpresa i siti iraniani, senza aiuto degli americani. Teheran risponde lanciando missili Shahab su Tel Aviv, uccidendono 75 civili. Washington difende lo stato ebraico all’Onu. Hezbollah lancia alcuni katiusha sulla Galilea per placare le richieste iraniane. L’aviazione ebraica porta un secondo attacco alle centrali iraniane. Mentre all’Onu si invoca la “stabilità nella regione”, dei siti nucleari iraniani restano solo macerie. Un bilancio tutto sommato “positivo” per Israele.
Se il war game è rappresentativo delle previsioni di Gerusalemme, in un futuro non troppo lontano ai caccia F16 potrebbero essere ordinato di alzarsi in volo dalla base di Megiddo per distruggere le centrifughe degli ayatollah. Resta da vedere quale sarà la risposta del nuovo capo di stato maggiore (nella foto, il generale Benny Gantz), il “Ramatkal”.

Giulio Meotti, 6 novembre 2012

Fonte: Il Foglio

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