di Carmelo Abisso

“Prendendo la parola in questo consesso sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me..”. Cosi, citando Alcide De Gasperi alla conferenza per la pace di Parigi il 10 agosto1946, è iniziata la chiaccherata musicale su “Il Canto degli Italiani” dello storico Michele D’Andrea, funzionario dell’ufficio studi della Presidenza della Repubblica, tenuta il 16 novembre scorso nel circolo ufficiali dell’Esercito a Bologna.

In sala insieme ai partecipanti era presente il prefetto Angelo Tranfaglia, il questore Vincenzo Stingone, il vice presidente della provincia Giacomo Venturi. Introdotto dal generale di divisione Antonio De Vita, comandante militare Esercito dell’Emilia Romagna, D’Andrea ha subito chiarito che il nostro inno – che appartiene alla tradizione della musica lirica dell’800 –  “è uno tra gli inni più belli del mondo, ma viene eseguito male”.

La discussione del relatore è un susseguirsi di cenni storici e di frasi celebri che ha trasportato il pubblico alla scoperta dell’importanza del nostro inno a confronto con quelli di altri paesi che spesso ci snobbano. La prima affermazione però è una piccola critica fatta a chi sostiene che sia il testo a fare l’inno e non la composizione musicale che l’accompagna.“Le parole non nascondono niente se non quello che realmente dicono, infatti già 160 anni fa era comprensibile anche al 95% della popolazione italiana analfabeta, ma è la musicalità che deve essere analizzata e compresa”, ha detto D’Andrea.

“Un inno deve funzionare”, per questo non era dato per scontato che dovesse essere composto da musicisti famosi. Infatti le parole non sono il nocciolo ma è ciò che le accompagna che le rende uniche e indimenticabili, “se la musica funziona tutto può diventare un sontuoso canto” afferma ancora D’Andrea. Dopo una prima bozza del 1847 intitolata “Inno militare”, musica di Giuseppe Verdi, che durerà solo un mese, “è stato completamente cassato”, nel 1848 viene composto l’inno definitivo scritto da Goffredo Mameli e musicato da Michele Novaro.

Il fatto che sia stato scritto da italiani rende il nostro inno ancor più unico: all’estero non è per niente una cosa scontata e sembra sia una rarità. L’inno americano, per esempio, non è altro che la produzione di alcuni membri di un club londinese di fine ‘700. L’inno tedesco è un clamoroso “furto” fatto all’impero asburgico dopo la sua caduta nel 1918 e riadattato dalla repubblica di Weimar nel 1922 con parole di un oscuro poeta non noto. Nei 130 anni precedenti i patrioti tedeschi cantavano sulle note di “God save the Queen”, l’inno inglese. La Svizzera addirittura ha usato l’inno d’oltre manica fino al 1961. L’Olanda intona ancor oggi a fine inno le parole di quello iberico, “onore al re spagnolo”.

La nostra lirica è unica e cadenzata perfettamente con le parole ma non sempre si riesce o si vuole riprodurla al modo giusto. “La musicalità del nostro cantico deve essere fluida e senza percussioni” – afferma D’Andrea – invece si è sacrificata l’esecuzione di un inno all’esigenza di mantenere il passo con i colpi di tamburo”.

Michele Novaro aveva trovato la musica perfetta, la cosidetta cabaletta, appartenente all’opera lirica, come il “Di quella pira l’orrendo foco…” del Trovatore. “E’ merito di Novaro se il nostro inno è uno dei più originali, è una narrazione di quello che accade”.

Lo straordinario convegno non poteva non concludersi con l’intonare collettivo dell’inno con viva e vibrante passione, così come dovrebbe essere cantato, insieme al coro Leone di Bologna diretto dal maestro Pier Luigi Piazzi. “E adesso fatevi scendere la gioia dentro e godiamoci l’orgoglio di essere italiani” ha concluso Michele D’Andrea, seguito da una emozionante standing ovation.

Foto di Stefano Ferraresi

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