E’ atterrato mercoledi mattina all’aeroporto militare di Ciampino il velivolo C-130 che ha trasferito in Italia le salme di Francesco Currò, Luca Valente e  Francesco Paolo Messineo, i tre caporalmaggiori del 66° reggimento fanteria aeromobile “Trieste”morti lunedì scorso in un incidente stradale avvenuto in Afghanistan, all’imbocco della Zerko Valley, durante un’operazione condotta a sud di Shindand dalla Task Force Centre. Ad accogliere le salme dei tre militari, il capo di stato maggiore della difesa generale Abrate e il capo di stato maggiore dell’esercito, generale Claudio Graziano, che ha espresso sentimenti di “affettuosa vicinanza e sincera partecipazione al dolore dei familiari dei caduti”. Completato lo scalo tecnico, i feretri saranno trasportati con velivoli militari in Sicilia e in Puglia per i solenni funerali.

Come ha scritto oggi Marco Imarisio sul Corriere della Sera i tre soldati “non sono morti di serie B” perché invece che dal fuoco o delle bombe dei talebani sono stati uccisi da un incidente stradale. In Afghanistan le condizioni ambientali e infrastrutturali sono un nemico non meno insidioso dei talebani o delle milizie di narcotrafficanti e di Al Qaeda. Il veicolo Lince si è rovesciato mentre guadava un torrente condannando a un orribile morte per annegamento i tre uomini all’interno (si è salvato solo il mitragliere in postazione esterna sopra il  veicolo), imbragati nelle cinghie del sistema di protezione antimina e impossibilitati ad aprire le pesanti portiere di un mezzo che tante volte ha salvato i militari dalle esplosioni al punto da essere stato ribattezzato San Lince.

La morte dei tre fanti aeromobili ha riaperto le polemiche sull’efficacia di questo veicolo acquistato anche da altri dieci Paesi per proteggere i militari dei contingenti a Kabul ma chi conosce l’Afghanistan sa bene che morire per un incidente laggiù non è poi così difficile. I torrenti impetuosi sono per dieci mesi all’anno degli “uadi” secchi e polverosi contraddistinti da buche e dislivelli impossibili da localizzare durante l’inverno, quando il letto è coperto dalle acque. Non per questo le operazioni possono essere interrotte in un Paese dove, per evitare le mine seminate dai talebani, spesso i mezzi viaggiano fuori dalle piste.

Morire in un incidente, utilizzando mezzi, velivoli ed equipaggiamenti, fa parte dei rischi del mestiere di soldato e in Afghanistan la possibilità è più elevata che altrove per le difficili condizioni meteo, le alte montagne, le pessime condizioni delle strade (pochissime quelle asfaltate), dei ponti e in genere delle infrastrutture di un territorio selvaggio devastato da decenni di guerre e da un’incuria alla quale nessuno ha mai neppure tentato di porre rimedio.

Basti pensare che dei 49 caduti italiani in Afghanistan ben 14 (cioè più di un quarto) sono morti per cause diverse dal fuoco nemico: 5 per malori e 9 per incidenti stradali o legati all’impiego dei mezzi. I rischi maggiori sono d’inverno, quando le condizioni meteo spesso rendono impraticabili le strade, gonfiano i fiumi e isolano interi distretti. Le unità assegnate alla brigata Sassari che stanno portando a termine un turno semestrale invernale senza precedenti per risultati operativi conseguiti hanno registrato da settembre 8 caduti, nessuno dei quali causato dal fuoco nemico.

I contingenti alleati presentano percentuali variabili di perdite per cause diverse dagli “atti ostli”. Diciotto degli 82 caduti francesi non sono morti in combattimento come 40  dei 398 britannici, 21 dei 34 spagnoli, 17 dei 53 tedeschi e almeno 380 dei quasi 1900 caduti statunitensi.

Gianandrea Gaiani, 22 febbraio 2012

Fonte: panorama.it

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