Per undici anni, dal 1993 al 2004, […] cercai di fare tutte e due le cose insieme, l’industriale e lo scrittore, in una folle commistione di ruoli che riscuoteva l’invidia e l’ammirazione dei miei colleghi imprenditori – molti dei quali convinti che dentro di loro si nascondesse un artista – e la sorpresa sospettosa degli scrittori che via via conoscevo – molti dei quali convinti che sarebbero stati capacissimi di dirigere un’azienda.

Mi dicevo che avrei continuato a cercare di prendere il meglio dai due mondi che frequentavo, di usare le nozioni che imparavo nell’uno per aiutarmi nell’altro, e ignoravo la sentenza scritta decenni prima da Thomas Pynchon nel suo romanzo meno riuscito, l’illeggibile e geniale V, e cioè che chi fa un mestiere normale per mantenersi mentre scrive è convinto di prendere il meglio dai due mondi, ma invece prende solo il peggio, perché non potendosi mai dare totalmente a una cosa sola finisce per vivere una vita in attesa, frammentata e interrotta, parziale e priva di risultati, fatalmente infelice.

Oggi che l’azienda non c’è più da cinque anni – o meglio, non c’è più per me perché è diventata di altri, sparendo ai miei occhi e alla mia mente – capisco finalmente che quel desiderio, quella tensione verso il giorno in cui mi sarei potuto concentrare sulle lettere, lasciando ad altri i filati e le pezze e i telai, era probabilmente una parte fondamentale del mio modo d’intendere la vita: un necessario e infantile protendersi verso una moltitudine di traguardi vicini e lontani, importanti e futili, che non posso fare a meno di inseguire con tutte le mie forze, senza mai pensare a cosa farò se e quando li avrò raggiunti.

E così, oggi, nel momento storicamente più difficile del tessile pratese, e dunque italiano e dunque europeo, mentre continuano a giungermi le notizie dei fallimenti in serie di aziende di confezionisti tedeschi un tempo solide quanto il granito; mentre sui giornali locali si rincorrono le voci di gravi difficoltà di molti miei ex colleghi industriali; mentre le centinaia di artigiani che fecero grande e speciale la nostra filiera tessile chiedono solo di essere accompagnati a chiudere con onore le loro microaziende senza rimetterci tutto quello che avevano guadagnato in decenni di sforzi; mentre ogni anno migliaia di persone perdono il posto di lavoro nella mia città, che di abitanti non ne conta nemmeno duecentomila; mentre ormai anche gli sconosciuti si avvicinano a me per complimentarsi di aver venduto l’azienda, io non riesco a non sentire quasi ogni giorno una specie di vuoto struggimento che mi prende e finisce per sconfinare nell’angoscia, e non ha nome, e non mi consente mai di provare, se non l’orgoglio, almeno il sollievo di aver probabilmente evitato a me e alla mia famiglia una decadenza che sarebbe stata lunga e dolorosissima e, per come siamo noi Nesi, avrebbe cancellato nel ricordo anche tutte le cose buone realizzate in passato.

Non riesco a togliermi dalla testa quell’“& Figli” che suggella il nome del lanificio, quell’annuncio di continuità che era un richiamo e un augurio, una promessa fatta per me ormai sessant’anni fa da un nonno che non ho mai conosciuto. Non so decidere se sono stato furbo o vigliacco, se ho fatto bene o se ho tradito, come se a un capitano d’industria si richiedesse lo stesso ardimento del comandante d’una nave e fosse moralmente necessario starci dentro fino in fondo, alla ditta che porta il tuo nome. Mi chiedo se davvero si può amare un lavoro, se si può amare un’azienda.

Poi passa, certo. Torno a casa e mi passa. Vedo mia moglie e i miei figli, e mi passa. Ma ora so che scrivere romanzi non mi basta. Non mi può bastare. So che devo provare a scrivere la mia storia e quella della mia gente, come diceva Fitzgerald in una delle ultime disperate lettere al suo agente mentre cercava di descrivere The Love of the Last Tycoon, il meraviglioso romanzo sul cinema e sulla ricchezza e sull’innamoramento che non gli riuscì di finire perché il 21 dicembre del 1940, in quella Los Angeles che non lo amava, gli si spense il cuore.
Questo proverò a fare, prima che si spenga anche il mio.

Edoardo Nesi , dal libro “Storia della mia gente”, premio Strega 2011

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