L’insulto in rete non è libertà, ma sopraffazione

Una donna italiana ha dovuto leggere espressioni sconce, guardare immagini vergognose, subire allusioni disgustose. Non è importante che quella donna, oggi, sia presidente della Camera. «Minacce di morte, di stupro, di sodomia, di tortura», ha riassunto Concita De Gregorio, che l’ha intervistata per Repubblica . «Accanto al testo, spesso, ci sono immagini. Fotomontaggi: il suo volto sorridente sul corpo di una donna violentata da un uomo di colore, il suo viso sul corpo di una donna sgozzata, il sangue che riempie un catino a terra. Centinaia di pagine stampate, migliaia di messaggi».

Questa non è libertà: è sopraffazione. Impedire queste cose non è censura: è buon senso. Smettiamola di considerare il web come il luogo franco dove tutto è lecito: offendere, minacciare, ricattare, vomitare insulti. Lo abbiamo fatto con gli stadi di calcio, e abbiamo visto com’è finita.
Internet è troppo importante perché una minoranza di predoni, camuffati da libertari, possa rovinarla. Perché questo avverrà, se andiamo avanti così. Qualcuno invocherà leggi speciali: e arriveranno. Le leggi speciali, invece, non servono. Sono sufficienti quelle esistenti. Basta applicarle.
Minacce, diffamazione, ricatti e ingiurie sono reati: dovunque vengano commessi. La mia libertà di espressione si ferma davanti alla vostra libertà di non essere calunniati, offesi, spaventati.

Il web non è un mondo parallelo con regole proprie; è invece un fantastico strumento di condivisione e comunicazione. Non il primo, nella storia dell’uomo. Quand’è nata la televisione, nessuno ha detto: «Ehi, non è un giornale, è un mezzo nuovo! Usiamolo per minacciare, diffamare, insultare!». Tutti hanno pensato: è uno strumento molto potente, richiede molta attenzione.È giusto che mezzi riservati solo a poche categorie siano a disposizione di tutti. Anzi: è magnifico, anche se questa trasformazione ha messo in difficoltà il mondo dei media, precipitati nella più grave crisi industriale della propria storia. Fino pochi anni fa, solo giornalisti, autori, conduttori televisivi e radiofonici potevano far conoscere le proprie opinioni al pubblico.

Oggi tutti possono dire tutto a tutti, in ogni momento e da ogni luogo. Ma devono ricordare: un grande potere comporta una grande responsabilità. L’offesa, invece, sta diventando consuetudine. Ci sono migliaia di persone per cui scrivere a un personaggio pubblico «Se ti trovo ti uccido!» o «Meriti una pallottola tra gli occhi!» è uno sfogo, protetto da una gioiosa impunità. Frasi del genere erano sgradevoli, se pronunciate tra gli amici al bar. Scritte su Facebook o rilanciate da Twitter possono avere una diffusione esponenziale, e diventano un’altra cosa. Non è più una questione di cattivo gusto; è materia di diritto penale.

Domenica, dopo la sparatoria davanti Palazzo Chigi, Laura Boldrini ha commentato, forse per imperizia: «La crisi trasforma le vittime in carnefici». La crisi c’è, le vittime ci sono; le colpe, anche. Ma non bisogna concedere attenuanti alla violenza. Neppure alla violenza verbale. Altrimenti qualcuno penserà che un’ingiustizia – e quante ce ne sono, purtroppo – possa giustificare qualunque cosa: sconcezze, odio, deliri aggressivi. Questa non è libertà: è un ritorno all’età della pietra. Ma un urlo dalla caverna arrivava a venti metri; un tweet minaccioso parte dal nostro tavolo e fa il giro del mondo.
Provi pensare questo, chi ha vomitato assurdità dopo l’attentato al brigadiere Giangrande: se i carabinieri, angosciati per la sorte di un collega, volessero conoscere nomi, cognomi e indirizzi degli autori di certi commenti violenti, lo potrebbero fare senza difficoltà. Firmarsi @odioilmondo non consente di scrivere «Vi devono ammazzare tutti!». Non è solo una frase idiota, disumana e odiosa. È apologia di reato e istigazione a delinquere (art. 414 codice penale).

Gli irresponsabili del web, quasi sempre nascosti dietro l’anonimato, sono solo una minoranza chiassosa. Chi ha cuore la libertà della rete – quella vera – intervenga prima che sia tardi. Ricordando agli interessati che scherzano col fuoco. Gli strumenti per conoscerne le loro identità ci sono, come dicevamo; le norme penali anche. Manca, purtroppo, una giustizia lineare, rapida e proporzionata. Le sanzioni italiane, infatti, sono sempre spaventose, lente e improbabili; quando dovrebbero essere ragionevoli, rapide e certe.
Ha ragione Arianna Ciccone, organizzatrice del Festival Internazionale del Giornalismo a Perugia: «Le leggi che valgono nella vita “fisica” sono le stesse che valgono nella vita “virtuale”. Il punto è farle applicare, ma anche nella vita reale». L’impotenza giudiziaria italiana – condita di parole, profumata di retorica, coperta dalle solite enunciazioni di principio – ci sta presentando il conto. C’è chi si permette di non pagare un lavoro o una fornitura, e irridere il creditore («Avanti, fammi causa!»); e chi può minacciare, insultare e diffamare, sapendo di farla franca.

Minacciare, insultare o diffamare sul web non è un’attenuante, ripeto. È un’aggravante, invece. Perché il web è potente, geniale, libero, egualitario. Sporcarlo è un una vergogna, non soltanto un errore.

Beppe Severgnini, 4 maggio 2013

Fonte: Corriere della Sera

 

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