Le reazioni degli spettatori americani. La storia inizia con le telefonate delle persone morte nel World Trade Center

Lo spettacolo delle otto di sera è già sold-out . Così risalgo sull’automobile e attraverso Los Angeles, da est a ovest, fino a un altrettanto gigantesco multisala. Arrivo al Century City con un’ora e un quarto di anticipo, ma i biglietti sono esauriti anche lì. Ne compro uno per l’ultima proiezione della notte, nonostante nei giorni scorsi non abbia resistito neppure una volta sveglio fino a quell’ora per la differenza di fuso orario. Ci sono ancora pochi posti da torcicollo in primissima fila – è lo stesso. Attendo per due ore, girovagando nel centro commerciale in fase di chiusura. Tale è la mia impazienza per il nuovo film di Kathryn Bigelow, Zero Dark Thirty , dopo che il suo precedente, The Hurt Locker , mi convinse nel 2010 a visitare la missione militare in Afghanistan e a scriverne, poi. E tale, a quanto sembra, è l’impazienza del pubblico californiano verso un film di cui si è parlato molto prima che uscisse, abbastanza da mettere in agitazione il mondo politico statunitense e a sollevare polemiche che ne hanno rinviato la diffusione, per il momento ancora limitata a una manciata di sale in tutto il Paese.

Nonostante i ritardi, il cartellone austero e muscolare di Zero Dark Thirty appare ovunque a Los Angeles: è il primo ad accoglierti se arrivi in città percorrendo la 101 da nord e da lì in poi si ripropone allo sguardo quasi quanto il manifesto di The Hobbit . «La più grande caccia all’uomo della storia», recita lo strillo in testa al titolo, e l’uomo in questione è Osama Bin Laden. Sappiamo tutti come la caccia è andata a finire. Cosa conosciamo meno è quello che K. Bigelow mette in scena in 157 minuti che iniziano al buio, con le registrazioni telefoniche delle persone intrappolate nel World Trade Center durante l’attacco dell’11 settembre, e proseguono in un crescendo di tensione fino alle 00.30 ( zero dark thirty , in gergo militaresco) del 2 maggio 2011, quando Bin Laden viene giustiziato nel suo bunker ad Abbottabad, Pakistan. C’erano spettatori, tra i quali il sottoscritto, che avevano ceduto alla tentazione un po’ volgare dei popcorn, ma poco dopo l’inizio non si è più sentito neppure uno scricchiolio.

K. Bigelow e lo sceneggiatore Mark Boal, suo compagno di vita, rappresentano con distacco implacabile una sequenza di fatti, la cui ricostruzione dev’essere costata uno sforzo di ricerca straordinario, considerata la mole di materiale classificato e la vicinanza temporale degli eventi. Come nel precedente film, prediligono una forma narrativa essenziale e trasparente, per affrontare a viso aperto la tematica della guerra. Di nuovo, si avverte che una temerarietà simile proviene loro da qualcosa di intimo che trascende la bravura, da una coesione di sentimento e pensiero che può esistere solo in una coppia (e per questo non voglio credere a ciò che si vocifera, che la loro relazione sia terminata proprio durante il making of ).

L’origine del trambusto mediatico scatenato da Zero DarkThirty risiede tutto nella prima mezz’ora, quando la protagonista – Jessica Chastain nel ruolo di un’agente della Cia di nome Maya – assiste alle sevizie che il collega infligge al prigioniero Khalid Sheikh Mohammed, uno dei responsabili dell’attacco alle Torri Gemelle. In una prigione lurida nascosta in una delle molte aree segrete del Medio Oriente l’uomo viene malmenato, denudato, tirato al guinzaglio come un cane, chiuso in una scatola, privato del cibo e del sonno e sottoposto serialmente alla pratica del waterboarding, una forma di tortura casalinga, quasi degna del bullismo adolescenziale: il prigioniero viene immobilizzato a terra, gli viene posato un asciugamano sulla faccia e sull’asciugamano viene versata abbondante acqua con una caraffa. Sembra niente, e in effetti è più truculento da immaginare che da guardare, ma la sensazione che provoca è quella dell’annegamento. Il waterboarding gode di una fama antica: veniva usato dai tribunali dell’Inquisizione in Spagna e Olanda, dai francesi in Algeria, dai Khmer Rossi in Cambogia, in Cile da Pinochet e successivamente è stato adottato dalla Cia come «metodo forte» per gli interrogatori. Khalid Sheikh Mohammed vi è stato sottoposto 183 volte durante la sua detenzione, anche ripetutamente nell’arco di una sola giornata. Annegato. Per 183 volte.

Secondo Bigelow-Boal (e secondo larga parte degli opinionisti) le torture hanno funzionato, perché proprio Khalid Sheikh Mohammed ha fornito il nome del corriere di fiducia di Osama Bin Laden – Abu Ahmed al-Kuwaiti, evocato per lunga parte nel film come un fantasma – che, pedinato, ha permesso di scoprire il nascondiglio del principe di Al Qaeda, otto anni dopo. Se tutto questo è vero – e pare proprio che lo sia – l’uccisione di Bin Laden, che il mondo occidentale ha salutato come una vittoria della luce sulle tenebre, della giustizia sull’iniquità, è figlia di un abuso atroce su un essere umano, anzi su molti, nonché di uno strappo a malapena accettabile delle convenzioni internazionali sulla prigionia. Tutto avvenuto in epoca Bush jr., prima che Barack Obama bandisse ufficialmente i «metodi forti» della Cia.

Ma Zero Dark Thirty non è soltanto un caso politico. E i dissapori amplificati dalla recente campagna elettorale rischiano di offuscarne il senso più ampio. Se a K. Bigelow fossero interessate esclusivamente la denuncia e la cronaca, avrebbe girato un documentario e di sicuro non avrebbe scelto quello schianto di Jessica Chastain nel ruolo dell’agente Maya. Zero Dark Thirty è un film e, come ogni vero film, cerca di abbracciare qualcosa che sta appena più in là del visibile. In questo caso, la paura che stritola il nostro mondo dal settembre del 2001. Durante la scena epica dell’incursione dei Navy Seals nella fortezza di Abbottabad, uno dei soldati speciali, avvicinandosi alla stanza del terzo piano in cui è nascosto Bin Laden, sussurra il suo nome: «Osama», come se attirasse un topolino fuori dalla tana. In quel momento l’intera sala del cinema ha lasciato andare una risata distensiva, ma quando il soldato lo ha ripetuto per la seconda volta: «Osama», e poi per la terza, tutti quanti siamo ammutoliti. Quel soldato stava chiamando per nome il nostro terrore.

Neppure l’agente Maya aveva capito che l’uomo a cui dava la caccia era ormai soprattutto un simbolo. Nei dieci anni di indagini, scanditi dalle bombe a Madrid, a Londra, al Marriott Hotel di Islamabad e nelle basi militari in Afghanistan, non ha pensato ad altro, non ha avuto un flirt, non si è concessa alcuna distrazione (o almeno, il film non gliene concede alcuna). Per quel che ne sappiamo Maya non ha famiglia, né motivazioni psicologiche che l’hanno spinta a fare il lavoro che fa, ad assistere alle torture su soldati inermi e a ordinarle, infine, lei stessa. Perché in guerra c’è spazio per una sola ossessione: la vittoria. È lei stessa a identificare il cadavere di Osama Bin Laden, recapitatole dai Seals in un sacco, come un macabro pacco regalo. Completata la missione, Maya entra da sola nella pancia metallica di un aereo militare. La telecamera stringe sul suo viso dove, insieme al sollievo, affiora una nuova angoscia. Le scende una lacrima: il simbolo è stato sconfitto, ma la guerra continua.

Paolo Giordano, 2 gennaio 2013

Fonte: Corriere della Sera

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