La Cassazione ha respinto il ricorso di Sallusti contro la condanna per diffamazione emessa nei suoi confronti dalla Corte di Appello di Milano. Poiché si tratta di condanna alla reclusione, per il direttore de Il Giornale dovrebbero, ora, aprirsi le porte del carcere.

Dico subito che le condanne al carcere dei giornalisti accusati di diffamazione mi sono sempre piaciute poco; le considero un’inutile intimidazione in un settore, delicatissimo, quale è quello della informazione e della libertà di stampa. Per fortuna, esse sono oggi, nella pratica giudiziaria, poco frequenti. Di regola i giudici, se ritengono di dovere condannare, optano per una condanna alla pena pecuniaria, prevista dalla legge in alternativa alla reclusione (e per una, contestuale, condanna al risarcimento dei danni a favore della vittima). Talvolta, tuttavia, la condanna alla reclusione viene, inopinatamente, pronunciata.

Io difendo da anni molti giornalisti. Per mia fortuna, non ho mai subito l’onta di una condanna al carcere di un mio assistito. Mi è capitato tuttavia di difendere giornalisti, difesi da altri in primo grado, che avevano subito tale condanna. E per mia fortuna, ancora una volta, la Corte di Appello ha sempre rimediato, sostituendo, quantomeno, la pena detentiva con quella pecuniaria (l’ultima volta mi è accaduto difendendo Travaglio, con riferimento ad un vecchio articolo de L’Espresso).

La condanna alla pena detentiva, di per sé poco accettabile nei confronti dei giornalisti che hanno redatto l’articolo incriminato, diventa d’altronde addirittura abnorme con riferimento al direttore del giornale. Il direttore non è infatti chiamato a rispondere per avere dolosamente scritto un pezzo lesivo dell’onore di qualcuno, bensì per non avere controllato con sufficiente attenzione gli articoli ed avere pertanto lasciato pubblicare, per colpa, le frasi diffamatorie. Davvero una semplice responsabilità penale colposa per «omesso controllo» giustifica una condanna alla galera?

Nella vicenda che ha coinvolto Sallusti, la peculiarità mi sembra d’altronde addirittura doppia. Il direttore de Il Giornale in primo grado non era stato infatti condannato alla reclusione; il carcere è apparso soltanto in appello. Una soluzione che la Corte di appello avrà ritenuto giustificata dagli atti del processo, ma che ha comunque dato luogo a una sequenza del tutto inusuale nella pratica giudiziaria.

Leggeremo a questo punto, quando saranno depositate, le ragioni per le quali la Cassazione ha rigettato il ricorso; anche se, come si sa, la Cassazione non può sindacare il merito della causa, ma può annullare una sentenza della Corte di Appello soltanto se riscontra, in essa, un vizio formale (violazione di legge o motivazione carente, illogica o contraddittoria).

Detto questo, ora che fare? I difensori di Sallusti si muoveranno sicuramente, nella fase esecutiva penale, per ridurre al minimo i disagi del condannato. Sul piano generale, ciò che è accaduto dovrebbe tuttavia indurre il Parlamento a riflettere ed a modificare la legislazione vigente in materia di diffamazione a mezzo stampa. Lo ritengo assolutamente necessario. Fra l’altro, sarebbe coerente con la più moderna politica criminale, che tende a circoscrivere l’utilizzazione del carcere da parte della legislazione penale ed a riservare tale sanzione soltanto ai reati più gravi.

Certo, nell’affrontare il tema della diffamazione a mezzo stampa occorre bilanciare l’interesse del giornalista a non rischiare la galera con quello dei cittadini a non vedere ingiustamente offeso il proprio onore. Per tutelare l’onorabilità non è tuttavia necessario incarcerare i giornalisti. Di regola, è ampiamente sufficiente infliggere una pena pecuniaria e condannare il colpevole a un risarcimento dei danni proporzionato alla gravità dell’offesa. Nei confronti dei casi più gravi, delle offese più “sanguinose”, si potrebbe, tutt’al più, pensare a pene interdittive (sospensione dalla professione, ecc.), magari senza sospensione condizionale della pena: ciò sarebbe di per sé sufficiente ad assicurare un’adeguata disincentivazione dal commettere diffamazione.

Un’ultima annotazione. La scelta di non incarcerare i giornalisti per le pubblicazioni penalmente illecite, data la delicatezza della materia dell’informazione e la sua importanza per la democrazia del Paese, costituisce una scelta di civiltà. Eppure, di recente, è pericolosamente affiorata, in taluni disegni di legge elaborati dalla parte politica alla quale appartiene il direttore Sallusti (es., disegno di legge sulle intercettazioni), la tendenza ad ampliare la previsione del carcere nei confronti dei giornalisti che infrangono il divieto di pubblicare notizie attinenti ad atti processuali. Anche in questi casi una inversione di rotta, per le ragioni esposte, sarebbe assolutamente auspicabile.

Carlo Federico Grosso, 27 settembre 2012

Fonte: La Stampa

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