Encomio al militare rimasto immobile, senza mai reagire alle provocazioni del No Tav che gli dava della “pecorella”. Che racconta: “Ci addestrano a non raccogliere le provocazioni. Tu senti quello che dicono e dici alla tua testa di pensare ad altro”

“Pecoreeeella, non hai un nome e un cognome, pecoreella?”. Il birignao squadrista che quel tipo sulla A32 gli ha cantilenato a vantaggio di telecamere e davanti alla visiera di plexiglass che il comandante di plotone gli aveva ordinato di abbassare ora lo ripete a se stesso come una canzoncina.

Le immagini di “Corriere tv” hanno fatto il giro della rete. Sono entrate nei corridoi della politica, dei ministeri, stupefatti dalla sua dignità di carabiniere. Hanno convinto il comandante generale dell’Arma, Leonardo Gallitelli, a gratificarlo di un encomio solenne per “la fermezza e la compostezza dimostrate”. E lui di tanto rumore e sovraesposizione ora ne sorride, quasi intimidito. Come può esserlo un ragazzo di 25 anni, quanti ne ha lui. Dice: “Pecorella un nome ce l’ha. Scrivi che mi chiamo F.”.

E l’accento tradisce la sua terra, la sua storia. È sardo della provincia di Oristano, F. È un “figlio del popolo”, come si diceva una volta. E non perché dirlo sia un cliché, ma perché è la verità. “Sono figlio di un operaio. E sono cresciuto in un paese di operai. Ho un fratello e la licenza liceale scientifica”.

“Comunque sei una bella pecorella, lo sai? Vorrei vederti sparare. Sai sparare?”, lo provocava lo squadrista in autostrada. Sì, sa sparare. Ed ha imparato in un poligono di tiro dell’esercito. Quello di una caserma della Brigata meccanizzata Sassari, dove, cinque anni fa, si era arruolato appena preso il diploma. “Avevo deciso di mettermi subito a lavorare. Fare il soldato è un mestiere onesto. E così quando sono uscito dal liceo ho firmato da volontario per 4 anni”.

F. poteva finire in Iraq, a Nassirya, dove la brigata ha ruotato durante la guerra. Si è ritrovato a Chiomonte, Val di Susa, Italia. “Sì non ho partecipato alle missioni all’estero. Perché, dopo due anni dall’arruolamento ho deciso di diventare carabiniere. Pensavo fosse un passo professionale importante. E quel lavoro mi affascinava.

Così, tre anni fa, conclusa la ferma con l’esercito sono arrivato al battaglione, da cui non mi sono più mosso e dove sto bene”. Dice “mestiere”, “lavoro”, F. Perché in fondo, spiega, sono sinonimo di dovere. “L’ho detto stamane un po’ emozionato al telefono al mio Comandante Generale. Ho detto che ho fatto solo il mio dovere. E il dovere, per me, è fare bene il mio lavoro”.

Nel lavoro in val di Susa, dove il suo battaglione è già “ruotato” almeno una decina di volte nell’ultimo anno, c’è anche quella roba lì. Sentire, magari provando a non ascoltare. “Dai anche i bacini alla tua ragazza con quella mascherina? Così non gli attacchi le malattie….”. “Io veramente non ho una moglie e se è per questo neanche una ragazza. Ma è lo stesso. Perché ci addestrano a non raccogliere gli insulti, le provocazioni. Tu senti quello che dicono e dici alla tua testa di pensare ad altro. Devi farlo”. Anche dunque se ti danno dello “stronzo in divisa”, che “da stronzo in divisa andrà in pensione”.

Ad F., per la pensione, manca una vita intera. A 1.300 euro di paga base, che diventano 1.500 con le indennità di trasferta. Troppe volte torneranno a dargli dello “stronzo”. “Lo so. Ma non importa”, dice lui. E ne è convinto. O comunque dice di esserlo. Perché la val di Susa gli ha insegnato una cosa. Che prova a dire così: “L’altra mattina sull’autostrada, e il giorno prima, insomma, tutte le volte che ho visto questi ragazzi, che hanno la mia età, ho pensato che è importante che ognuno abbia il diritto di dire quello che pensa. Giusto o sbagliato che sia. Purché lo faccia senza violenza. Poi, ognuno di noi saprà giudicare. O no?”.

Carlo Bonini, 1 marzo 2012

Fonte: la Repubblica

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