di Marie Colvin

Il testamento della giornalista uccisa “Corriamo dei rischi, ma ne vale la pena. Qualcuno deve andare là e trovare la verità in un turbine di propaganda”.  Pubblichiamo uno stralcio del discorso tenuto il 10 novembre 2010 nella chiesa di St Bride a Londra, durante una funzione in memoria dei reporter inglesi morti in guerra

Sono stata corrispondente di guerra per gran parte della mia vita professionale. È sempre stato un mestiere difficile, ma la necessità di reportage obiettivi dal fronte non è mai stata forte come oggi. Raccontare una guerra significa cercare di trovare la verità in un turbine di propaganda, mentre eserciti, tribù o terroristi si combattono fra loro. E sì, significa correre dei rischi, e spesso farli correre anche alle persone che lavorano con te.

Nonostante il linguaggio edulcorato sulle bombe intelligenti, lo scenario sul terreno è più o meno lo stesso da centinaia di anni: crateri; case bruciate; corpi mutilati; donne che piangono per i figli e i mariti morti; uomini che piangono per le loro mogli, madri, figli. La nostra missione è raccontare questi orrori senza pregiudizi. Dobbiamo sempre chiederci se il rischio è commisurato alla storia da raccontare, essere capaci di distinguere il coraggio dall´incoscienza. I giornalisti di guerra devono prendere scelte difficili. A volte pagano il prezzo più alto.

Io ho perso l´occhio in un´imboscata durante la guerra civile in Sri Lanka. Ero andata nella zona tamil, dove ai giornalisti era vietato l´accesso, e avevo trovato una catastrofe umanitaria di cui nessuno parlava. Tornando indietro di nascosto attraverso il confine interno, un soldato ha tirato una bomba a mano nella mia direzione.

La settimana scorsa ho preso un caffè in Afghanistan con un amico fotografo, João Silva. Abbiamo parlato del terrore che bisogna tenere sotto controllo, quando si va embedded con le forze armate, preparandosi a ogni passo all´esplosione.  L´attesa di quell´esplosione è un incubo. Due giorni dopo il nostro incontro, João ha messo il piede su una mina e ha perso tutte e due le gambe fino all´altezza del ginocchio.

Molti di voi probabilmente si saranno chiesti o si staranno chiedendo ora: tutto questo vale la perdita di vite umane, la sofferenza, il dolore? Siamo davvero in grado di cambiare qualcosa? È una domanda che mi sono fatta quando sono rimasta ferita. Un quotidiano titolò: Marie Colvin non si sarà spinta troppo oltre? La mia risposta, allora come adesso, è che sì, ne vale la pena. Andiamo in zone di guerra remote per riferire quello che sta succedendo. Il pubblico ha il diritto di sapere quello che il governo e le forze armate stanno facendo in nome nostro. La nostra missione è dire la verità.

La storia della nostra professione è una storia di cui andare orgogliosi. Il primo corrispondente di guerra dell´era moderna fu William Howard Russell, del Times, inviato in Crimea a raccontare il conflitto fra una coalizione guidata dagli inglesi e gli invasori russi. Russell scatenò l´indignazione dell´opinione pubblica in patria rivelando l´inadeguatezza dell´equipaggiamento e il trattamento vergognoso dei feriti. Fu una rivoluzione. Fino a quel momento, le guerre venivano raccontate dagli ufficiali di grado inferiore. Billy Russell andò in guerra con la mente aperta, un telescopio, un taccuino e una bottiglia di brandy.

I reportage di guerra sono cambiati negli ultimi anni. Ora andiamo in guerra con un telefono satellitare, un portatile, una videocamera e un giubbotto antiproiettile. Ma l´essenza del giornalismo di guerra è sempre quella: qualcuno deve andare laggiù e vedere cosa succede. La vera difficoltà è avere abbastanza fiducia nell´umanità da credere che ci sia gente a cui interessa quello che scrivi. Noi abbiamo questa fiducia perché siamo convinti di poter fare la differenza.

(Traduzione Fabio Galimberti)

Fonte: la Repubblica, 23 febbraio 2012

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here