Il mestiere di addetto stampa(oggi si preferisce dire “portavoce” o “direttore della comunicazione”) è ingrato e logorante. Se il tuo protetto non conta nulla, bisogna sudare come bestie per ottenere un trafiletto in qualche pagina interna; se è uno importante, l’assedio dei giornalisti è continuo e ogni pretesto è buono per una polemica. In entrambi i casi, l’addetto stampa ricorre ad un attento mix di lusinghe e di minacce, di promesse e di ritorsioni.
E’ normale: l’informazione è un mercato e il valore delle merci che si scambiano è variabile. Un buon addetto stampa, dunque, è prima di tutto un buon mercante: può offrire una notizia che riguarda qualcun altro per avere in cambio un trattamento di favore, può barattare un’intervista con una copertina o un editoriale(a favore, si intende), può far trapelare qualcosa per distogliere l’attenzione da altro, può stilare trattati di pace con una testata o dichiarazioni di guerra con un’altra. Un addetto stampa corretto risponde a tutti, ma non a tutti deve dire le stesse cose.
Dov’è dunque lo scandalo nel caso Arpisella-Il Giornale e in quello, parallelo ma curiosamente sfuggito all’attenzione severa del giudice Woodcock, Panorama-Arpisella? Telefonate come quelle c’è ne sono a centinaia, in partenza e in arrivo in ogni giornale, dal Corriere della Sera all’ultima radio di paese, e in ogni ufficio stampa, dal Quirinale all’assessore del più piccolo comune d’Italia. Ho fatto per due anni l’addetto stampa di Massimo D’Alema. Qualche volta ho mentito, qualche volta ho blandito, qualche volta ho minacciato: ma né io, né nessuno dei miei colleghi di allora, giornalisti e portavoce, si sarebbe mai sognato di gridare allo scandalo. Non si aiuta né la libertà di stampa, né la credibilità della giustizia, aprendo un’inchiesta sul niente: è questo il vero scandalo di cui dovremmo discutere.

Fabrizio Rondolino, 27 ottobre 2010

Fonte: Vanity Fair

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