Non si danno pace, editori e giornali di mezzo mondo, e continuano a confondere le cause della crisi che da tempo li ha investiti con le conseguenze e l’ineluttabilità della realtà. Dare addosso a Google fino a oggi non ha portato molti vantaggi, come sa Rupert Murdoch, partito un paio d’anni fa per una crociata contro il potente motore di ricerca e ritornato in questi mesi a casa senza neppure l’armatura. Il ragionamento del tycoon australiano era il seguente: Google è un parassita che attira pubblicità e clic perché rilancia notizie prodotte dai giornali, siamo stufi di lavorare per loro, quindi impediamogli di pubblicare link ai nostri articoli, tanto noi i nostri lettori continueremo ad averli. Come Murdoch la pensava buona parte dei grandi editori degli Stati Uniti. Quello che è successo dopo lo ha ben descritto qualche giorno fa David Carr, esperto di nuovi media (e non solo) sul New York Times: “Alla fine gli editori hanno capito che c’era solo una cosa peggiore di far parte del servizio di Google News: non farne parte per niente”. Così Murdoch è tornato sui suoi passi, e i quotidiani americani hanno accettato che il motore di ricerca pubblicasse gratuitamente titoli ed estratti dei loro articoli, creando addirittura dei paywall liquidi, per cui chi arriva su un articolo a pagamento passando da social network o motori di ricerca può leggerlo gratis.

Il problema non è affatto risolto, come spiegava ieri l’Economist facendo il punto sullo stato della guerra giornali-Google: se gli Stati Uniti sembrano avere trovato una quadra, infatti, dal resto del mondo cominciano a levarsi proteste non senza conseguenze: da circa un anno in Brasile più di centocinquanta quotidiani hanno scelto di togliersi da Google News sostenendo che il colosso del Web avrebbe dovuto pagarli. La decisione al momento sembra premiare gli editori sudamericani (dopo questo passo, sostengono, il traffico sui loro siti è diminuito solo del cinque per cento), ma quello brasiliano è un caso a parte, anche perché a Rio e dintorni i giornali stanno meglio che in Europa.
Già, l’Europa: gli editori tedeschi hanno ottenuto l’approvazione da parte del governo di leggi severe per “contenere” i motori di ricerca, e la Francia si è messa sulla stessa strada. Difficile però, scriveva ancora Carr, che il presidente di Google, Eric Schmidt, accetti di pagare una tassa su contenuti non di sua proprietà. Come sempre le ragioni sono, almeno apparentemente, da entrambe le parti. Ma Google può permettersi il lusso di temporeggiare, forte innanzitutto dei suoi quattro miliardi di clic generati al mese verso i siti di notizie, un miliardo dei quali da Google News. Con il passare dei mesi il colosso di Mountain View vede la vittoria più vicina: per gli utenti del Web passare dal motore di ricerca di Schmidt è diventato un gesto naturale e automatico come infilarsi le pantofole appena scesi dal letto, e difficilmente i giornali, in difficoltà economiche sempre più palesi, avranno le forze per continuare a resistere. “Bisogna smetterla di trattare le notizie come un prodotto da tutelare con le stesse restrizioni che si usavano in passato – sostiene Rosental Alves, professore di giornalismo in Texas e già direttore del Jornal do Brasil, citato da Carr nel suo articolo – L’informazione è liquida e inarrestabile”. Ciò non significa che a Schmidt convenga sedersi sulla riva del fiume e aspettare il cadavere inchiostrato del giornalismo mondiale, tutt’altro. I primi a cui conviene avere un mondo dell’editoria vivo sono proprio i ragazzi di Google. Dopo un incontro con il presidente Hollande, Schmidt si è detto fiducioso di “poter raggiungere un accordo entro la fine dell’anno” con gli editori francesi.

Come sostiene l’Economist, il vero problema dietro a questo scontro è la crisi della carta stampata. In Francia (ma la situazione è analoga in quasi tutto il mondo) tutti i giornali hanno i conti in rosso, e dare le colpe a Google è miope oltre che infantile. Non sarà una tassa sui contenuti a riempire di nuovo le casse e ad accelerare il rinnovamento di un mondo che fatica ad abbandonare un sistema che per decenni ha funzionato, ma che oggi dimostra tutta la sua inadeguatezza. Jan Malinowski, esperto di media presso il Consiglio europeo, dice che cercare di imporre a Google una tassa sugli articoli è “come proibire la stampa a caratteri mobili di Gutenberg per tutelare gli amanuensi”. Occorre inventiva, suggerisce infine l’Economist: alcuni sistemi di pagamento, anche diversi tra loro, cominciano a funzionare. Imitare questi esempi virtuosi può essere una buona mossa. Poi, paradossalmente, smettere di vedere Google come un nemico e iniziare a trattarlo come un possibile alleato potrebbe finalmente migliorare le cose.

Piero Vietti, 10 novembre 2012

Fonte: Il Foglio

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