di Renato M. Leonida
16 maggio. Sembra che dieci vittime, per di più palestinesi, non facciano differenza nell’ormai eterna sfida tra i due popoli. Popoli giovani, i cui retaggi sono raccontati nelle pagine del vecchio Testamento e dunque popoli antichi, apparsi sul proscenio dell’umanità da che esiste Dio. Caino e Abele, che sono figli di un unico uomo, separati dall’incurabile odio fraterno, fino alla fine come per effetto di un cancro mortale, inestirpabile. Rileggo adesso queste pagine delle Bibbia e scopro, ancora una volta, che la storia millenaria dell’odio tra i fratelli, progenie dell’unico Dio, insensato ma vero, si ripete.
Sono alcune manciate di anni, appartenenti ognuna di esse ad altrettante figure di ragazzi palestinesi accasciati tra le volte di filo spinato che la prospettiva schiacciata della fotografia stende con contorni sfuocati su di loro.
Sembra che si aggroviglino questi corpi, esattamente come quelle spirali di metallo pungente, tra braccia distese, tra volti contratti e sgraziati in espressioni di urlo, tra effigi di griffe alla moda stampate sulle magliette attillate, diffuse oltre i confini dell’odio dal marketing impietoso della distribuzione globale, adesso imbrattate di sangue, lo stesso di Caino e di Abele nelle foto a colori del moderno rancore fratricida.
Eppure vi è l’erba intorno, che è il segno della natura generosa in questa martoriata porzione di terra che dà le acque al Wazzani. È il fiume del lago di Tiberiade, che diviene Giordano, fin giù al Mar Morto e al battesimo di Cristo, ai piedi delle colline di Monte Nebo, luogo caro al beato Carol ove parrebbe essere sepolto Mosè custodito dai fratelli cappuccini dell’indimenticato padre Piccirillo. Che paradosso!
Vi sono l’erba e la terra con la loro naturalità e neutralità, con la loro appartenenza trasversale, che assistono nuovamente alle espressioni dell’improvvida violenza. Il paradosso che si sprigiona dalle immagini di Maroun Al Ras, giunte fino a Beirut nell’assolato pomeriggio dell’ennesima e insolita quiete domenicale, mi obbliga a una dolorosa partecipazione.
Sono luoghi conosciuti, visitati dalla storia recente, contorni erbosi simbolo della Resistenza, consacrati dal martirio del 2006, meta ideale per il rituale della Nakba, la catastrofe, per i palestinesi, della fondazione dello stato d’Israele. I pullman assiepati sul ciglio erboso, allineati in un parcheggio estemporaneo da affollata gita fuori porta, sono il macabro sfondo di queste immagini di dolore, paradosso nel paradosso!
La gente è stata portata a morire nel giorno della catastrofe con i pullman, da autisti a pagamento che traggono la loro parte di profitto insieme agli organizzatori della funerea scampagnata, insieme ai soldati delle forze armate libanesi che affannosamente guadagnano il loro stipendio rincorrendo sui pendii di terra, con inefficaci e roteanti manici di scopa, le disgiunte membra dei giovani palestinesi, ora insanguinate dal fuoco dei soldati israeliani, insieme agli stessi militari della divisione Galilea che con il loro tiro selettivo hanno rinnovato il senso di questa catastrofe umana attingendo, con la loro mira precisa, la carne del fratello anch’egli stirpe di Sem.
Cerco nelle notizie dei nostri telegiornali da Tel Aviv, in occasione della visita del presidente Napolitano, un riferimento a questa porzione di odio: non c’è traccia! Anche il nostro amato simbolo nazionale si è piegato, nei rigori del protocollo, agli effetti di questa miseria, non poteva essere diversamente, se ne conviene, ma tutto questo mi fa sentire ancora più male.