Voleva fare il marinaio, invece si è ritrovato a fare il giornalista, inviato di guerra sui fronti “caldi”. Ex Jugoslavia, Somalia, Iraq, Afghanistan le guerre degli ultimi trent’anni Toni Capuozzo le ha raccontate tutte. Oggi è vice direttore del TG5.

Figlio di padre napoletano e di madre triestina, laureato in sociologia all’Università di Trento ha inizato la sua attività giornalistica su “Lotta Continua” dopo aver fatto lo scaricatore, l’operaio in fonderia e l’insegnate. “Non ero tagliato- ricorda Capuozzo- così sono partito per il Nicaragua in cerca di materiale incandescente da proporre a un giornale. La notizia, però, era ormai vecchia. Ciò nonostante mi incoraggiarono per il lavoro svolto e mi ritrovai a raccontare battaglie per un’ altra testata. Da lì sono diventato per tutti un cronista di guerra”.

Lo abbiamo incontrato alla presentazione del libro “Capuozzo accontenta questo ragazzo” in ricordo di Giovanni Palatucci per parlare della sua esperienza ma anche del suo nuovo libro in cui spiega la guerra ai ragazzi.

Sigaretta in bocca, la voce levigata dal fumo, le note occhiaie (che hanno anche dato il titolo a una sua rubrica per il quotidiano “Il Foglio”) camicia nera con sulla spalla sinistra la “T” di “Terra!” (il programma di approfondimento che da anni conduce), in un momento di relax mentre mangiava un gelato, con grande disponibilità si è prestato a questa chiacchierata offrendo pure al sottoscritto la sua penna per scrivere.

Lei ha conosciuto, durante la sua lunga attività giornalistica, molti personaggi quale le è rimasto più impresso?
“Tantissime persone che non hanno storia. Ma sopratutto, pur non occupandomi direttamente di cultura, Jeorge Louis Borges che intervistai durante la guerra delle Falkland”.

Quale il fatto che più le è rimasto impresso?
“La strage al mercato di Markale, a Sarajevo, dove ero presente”.

È vero quello che si dice in giro che lei voleva fare il marinaio?
“Sì, è vero. Da piccolo avevo, sempre, visto mia nonna viaggiare, salire e scendere sempre dai transatlantici e mi aveva tremendamente affascinato. Poi, quando sono diventato grande e ho dovuto scegliere un lavoro per vivere non ho potuto seguire questo sogno, ma ho scelto una professione, quella del cronista, che unisse le mie due passione: viaggiare e scrivere”.

Perché un cronista decide di raccontare la guerra?
“Si racconta la guerra per liberarsi dal dolore di ciò che si vede, come quando abbiamo un segreto, lo custodiamo, ma appena lo raccontiamo a un amico, o ai genitori, ci sentiamo un po’ sollevati. In fondo si insegue l’illusione che far conoscere la sofferenza della guerra sia un modo per fermarla”.

A lei però non piace la definizione “inviato di guerra”…
“Sì, ho seguito moltissimo conflitti, ma anche tante altre cose. Il pubblico tende a ricordarmi per le volte che mi ha visto in situazioni conflittuali, ma io mi definisco un cronista: ho seguito guerre, ma ho seguito anche paci e belle storie (come quella dei minatori in Cile ad esempio). Poi, essendo di origine napoletana, sono anche un pò superstizioso: descriversi come “inviato di guerra” porta un po’ sfiga. Preferisco definirmi un cronista e basta. Io mi definisco un narratore, quindi tendo a vedere il lavoro dell’inviato di guerra come il racconto della realtà con testimonianze e protagonisti. Sono questi gli elementi di prima mano che permettono di capire realmente come vanno le cose”.

Durante le varie guerre che ha seguito, ha provato paura?
“Sì. La paura è un sentimento nobile. Però non deve trasformarsi in panico”.

L’esperienza di inviato di guerra l’ha segnata?
“Sì, mi ha insegnato a dare il giusto valore alle cose e a ripensare agli insegnamenti ricevuti in famiglia. Mio padre era uno che conservava anche i chiodi storti: io mi sono accorto che ciò veniva proprio dal fatto che aveva vissuto la guerra. A posteriori ho apprezzato questa sua parsimonia: penso sia delittuoso anche sprecare il cibo. Ho capito inoltre la fortuna che ho avuto ad andare a scuola, pensando alle bambine afghane per cui tutto ciò è stato una conquista faticosissima e ancora non consolidata. Le guerre ci fanno capire come siamo viziati e la fortuna che abbiamo. Ogni guerra mi ha lasciato qualcosa, e tutte insieme mi hanno insegnato quanto sia importante la pace, e quanto valore abbiano le piccole cose che ci circondano: la quiete che diamo per scontata, i soldi che ci permettono di andare a mangiare una pizza, la tranquillità di una passeggiata e persino la noia di una grigia domenica di pioggia”.

Cosa occorre per raccontare bene una guerra?
“Io sono convinto che per raccontare bene una guerra, uno deve saper raccontare bene quello che ha davanti a sé, davanti a casa sua, nel mercato del suo quartiere; deve saper scovare nella realtà di tutti i giorni – apparentemente anonima, senza spunti, senza passioni, senza grandi tratti da raccontare – individuare, capire, scoprire degli aspetti della realtà che gli altri hanno sotto gli occhi e agli altri sfuggono. E’ molto facile – lo dico con tutto il rispetto per quello che é il mio stesso lavoro – starsene davanti alla moschea di Baghdad. Il solo annuncio “ecco ci colleghiamo con Baghdad”, il solo fatto che uno appare con la luce notturna precoce che è data dalla differenza del fuso orario e dietro ha la moschea, meglio ancora se è l’ora della preghiera, se sullo sfondo delle tue parole c’è la voce rauca del muezin… E’ già fatto, il servizio: c’è un portato di elementi folklorici, c’è un portato di esotismo, c’è un portato di protagonismo indebito e a volte persino sgradevole che deriva dal fatto che “il nostro inviato è sul posto”, è nella città senza legge, senza regola. E la sua sola presenza costituisce un atto di coraggio e una specie di marchio di garanzia, di autenticità e di veridicità. E’ molto facile. La corsa per raccontare la realtà quotidiana, laddove non è condita dal brivido degli spari, della morte come elemento quotidiano del paesaggio, è una condizione secondo me irrinunciabile per saper raccontare bene una guerra. Perché la guerra è spesso la precipitazione di quanto già contenuto nella vita quotidiana”.

Lei ha definito la guerra come una seduta psicanalitica…
“La guerra è come una malattia: svela e rivela la natura profonda delle cose, porta a riflessioni importanti. La prima? Non esiste alcuna gloria in una guerra. Lo scopo della guerra è uccidere, ma la morte non è l’unica tragedia: c’è la fame, la paura. E vedere un militare morire, pur dispiacendo, è considerabile nelle regole del gioco, ma veder morire degli innocenti, bambini, donne, anziani, è ancora peggio”.

Perché  ha deciso di spiegare la guerra ai ragazzi?
“Perchè ho l’età in cui potrei essere un nonno che dovrebbe raccontare ai suoi nipoti certe cose, l’ho sentito come un dovere. Sono partito da una considerazione: io come tutti i padri ho sempre cercato di proteggere i miei figli dalle cose peggiori, anche con un gesto semplice come mettergli le mani davanti agli occhi se ci sono scene troppo forti in TV. Mi sono accorto però che non è giusto, perché le notizie arrivano comunque. Non è giusto tenerli all’oscuro dei lati brutti della vita e dell’uomo. Se non li conoscono non avranno mai le armi per difendersi”.

Il suo libro, però, non si rivolge solo ai ragazzi….
“È vero si rivolge anche ai genitori che a volte non sanno rispondere alle domande dei loro figli. Io sono cresciuto in una scuola nella quale i fatti peggiori del secolo, quali i conflitti mondiali e i lager, erano proposti come foto sbiadite che non riuscivano a descrivere il reale orrore della guerra, ricordando come, nell’immediato dopoguerra, gli adulti preferivano non parlare di quegli eventi davanti a noi bambini per proteggerci. Quando ero ragazzino  si credeva che l’ uomo avesse raggiunto la consapevolezza di quanto non fosse più necessaria la distruzione. Lo chiamavano “equilibrio del terrore”: si voleva credere che la Russia e gli Stati Uniti fossero consapevoli del fatto che, persistere con il nucleare avrebbe distrutto l’umanità. Beata illusione”.

Il suo libro parla anche del significato, del peso, dell’importanza delle parole…
“Alcune parole sono troppo usate, senza dare loro il giusto peso, le consumiamo come degli attrezzi. Parole  come “odio”, “amore”, “pace” per esempio non c’è persona che possa “amare” la guerra. Oggi abbiamo guerre che non sono dichiarate e dopoguerra che sono più sanguinosi della guerra.  La pace spesso non è quella che intendiamo, cioè  una pacificazione degli animi e un addio alle armi, ma solo un cessate il fuoco imposto da accordi internazionali. Sono parole vecchie che non ci fanno capire la situazione che abbiamo di fronte”.

È stato difficile spiegare una cosa così complessa e terribile come la guerra ai ragazzi?
“Ho usato un linguaggio semplice e ho inserito racconti della realtà, cercando di dare dei nomi e dei volti ai protagonisti degli episodi per evitare di essere noioso e di fare un’enciclopedia. Ho tentato di fare qualcosa non certo da leggere come una favola, ma che avesse dei momenti di narrazione meno dottrinali e meno saputelli. Non so se ci son riuscito, ci ho provato”.

Nazareno Giusti, 26 agosto 2012

Fonte: loschermo.it

 

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