di Carmelo Burgio

Torno a bomba su quanto recentemente esplicitato da me in seguito all’autorevole auspicio del Capo di SME circa la necessità che si riveda, si trasformi, l’Esercito Italiano attuale.

Ribadisco: non ha detto di voler soldi supplementari e mezzi nuovi. Sarebbe stata una banalità. È normale che un esercito, anche il meglio attrezzato, vada periodicamente rinnovato nei materiali, e in un paese serio ed evoluto non occorre lo si debba dire. Per tale ragione non concordo con polemiche sorte circa presunti “silenzi”, in passato, di predecessori. Son convinto che richiedere l’ammodernamento delle dotazioni sia sottinteso.

Diverso è invece il discorso se si intravede la possibilità che il mutare degli scenari, il ritorno ad un pericolo di una guerra convenzionale, richieda un adeguamento culturale dello strumento militare ad un confronto più energico, che abbiamo avuto ben presente noi vecchi soldati, fino alla fine degli anni ’80, e magari anche all’inizio dei ‘90 del secolo scorso.

Nel vergare le righe del precedente mio intervento, avevo ben chiare una serie di ovvie obiezioni, questo deve essere chiaro. Non son mai stato facile cultore della teoria, ed è ovvio che oggi prepararsi a quel tipo di guerra, oltre ai materiali, richieda spese in altri settori, magari ritenuti meno “nobili”, ma divenuti altrettanto vitali.

In quell’Esercito in cui servimmo, come i nostri padri e fratelli maggiori, inizialmente non c’erano lo straordinario, la Rappresentanza Militare, i Sindacati. Sia chiaro, riconosco a tali istituti e strutture la loro utilità e l’ineluttabilità del loro ingresso in scena, per cui guai a combatterli. Sono partners del settore in cui si opera, cui va garantita la possibilità d’essere al fianco, non contro. Sono intervenuti all’inizio degli anni ‘80, e i primi anni abbiamo a volte anche fatto finta di nulla. Ogni settimana ci toccava al battaglione una continuativa di 36-48 ore, e si è continuato a sottoporvisi. Al “Tuscania” dicevamo che non svolgendo servizio d’istituto nulla competesse.

Allora si andava a razzolare per campagne e bricchi con il sacchetto dei panini, solo a volte con la razione “K” che costava assai ed era centellinata, ci si accontentava dell’irrisoria indennità di marcia, non era inizialmente previsto il recupero delle ore eccedenti lo straordinario pagabile, tenda e ruderi dove accantonarsi andavano più che bene per non prendersi neve e pioggia. Quando divenne necessario pagare gli straordinari, spesso non lo si faceva perché non c’erano a sufficienza nel “monte ore” e nessuno se ne lagnava più che tanto. Lo stesso valeva per le tante ore in “allarme” trascorse: ci bastava la fierezza di sentirci diversi.

Già negli anni ’90, invece, condurre esercitazioni continuative è diventato un lusso, e di fatto ogni scusa era buona per annullarle, essendo noto a tutti quanto fossero lievitati i costi. Orologio e calendario sono entrati in gioco non più per sincronizzare le fasi dell’atto tattico, ma per capire come risparmiare sull’impiego del personale.

Poco si è compreso, forse, che risparmiare tempo portava ad economizzare fatica. Mentre in guerra la fatica non è un optional, e più sei addestrato a sopportarla, più hai possibilità di sopravvivere. Train hard, fight easy, era il mantra. In guerra, in “quella” guerra che ci preparavamo a condurre nei primi 40 anni del 2° dopoguerra, l’orologio andava messo da parte, come lo straordinario, come tante rivendicazioni che hanno la loro logica nella vita di guarnigione. Del tutto fuori luogo – in quanto non funzionali – se si cerca di applicarle all’addestramento a difendere o aggredire posizioni. Quando il tempo necessario diventa spesso l’ultimo dei problemi.

Ma, mi si obbietterà, i tempi son cambiati, non si torna indietro. Non è più possibile istituire quell’indennità militare in luogo del pagamento con criteri di bilancino da farmacista delle ore di servizio prestate in più. Non si può risolvere con un paio di panini l’esigenza alimentare: va garantita la trattoria. Non si può non ritenere che il militare che deve dormire – se poi ci si riesce – nel sacco a pelo all’addiaccio, debba ricevere per quelle ore di pseudo-riposo lo straordinario. Non si può togliere ad un uomo 24-48 ore di recupero di ore non pagate, e farlo venire al lavoro quando ha da fare a casa sua.

E allora qualcosa va inventata, e a mio parere si può, facendo leva sullo spirito di appartenenza, che per chi indossa le stellette a 5 punte al bavero non è sicuramente un optional. Perché generale, fante, maresciallo – under o over 49 anni – e sindacalista hanno qualcosa che manca ai loro livelli paritetici della grande industria o del pubblico impiego civile. Loro, a differenza degli altri, pur nella loro differenza di grado, responsabilità, prerogative, compiti e facoltà, hanno una serie di simboli che li uniscono. Un pezzetto di stoffa, un ricamo, un copricapo. Ma hanno soprattutto un pezzo di vita che li accomuna. Un giorno hanno scelto questa vita per andare a difendere in armi la Patria, e per far questo, tacitamente, hanno posto ciascuno la propria vita nelle mani degli altri commilitoni, di cui hanno avuto nelle proprie mani la vita, con la stessa responsabilità di difenderla e preservarla.

I militari non sono, con tutto il rispetto per edili, metalmeccanici, chimici, autotrasportatori, etc. dei lavoratori “normali”. In senso statistico, ma soprattutto in senso morale. E del resto chiedono per tale loro peculiarità una diversa attenzione dallo Stato.

E allora pensavo, rifacendomi al discorso di J.F. Kennedy, che sia a volte necessario chiedersi cosa potremmo fare noi per l’Italia, per le nostre Forze Armate, prima di interrogarci su cosa potrebbero esse fare per noi.

Inutile e antistorico auspicare l’abolizione di istituti di carattere economico entrati oramai nella vita corrente del lavoratore con le stellette, ma un intervento per limitarne l’incidenza sulla possibilità di prepararsi a svolgere il proprio compito, forse, si potrebbe compiere.

Ma questo sforzo va esercitato in concordia, tutti insieme. Sindacalisti, personale e comandanti tutti.

Perché, ad esempio, a mesi alterni o nella misura che si riterrà più adeguata a seguito di apposita concertazione, non si opera un’espressa – concordata – rinuncia a recuperi di ore e indennità di straordinario? O non si stabilisce una serie di attività continuative di congrua durata per le quali – spontaneamente e pubblicizzandolo adeguatamente – si esprima rinuncia a prebende aggiuntive? Del resto è il lavoro del soldato, è l’unico modo attraverso il quale egli può affermare la propria peculiarità, e costituirebbe esempio concreto del proprio attaccamento alle Forze Armate e all’Italia, oltre a quelli che comunque offre. Recuperare questa caratteristica, renderla ancor più evidente di quello che è, male non farebbe.

 

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