“Si chiama esercito d’Israele, non esercito di Dio”. Nahum Barnea, veterano del giornalismo israeliano, su Yedioth Ahronoth ha espresso così la propria frustrazione per la metamorfosi delle forze di difesa israeliane (Idf). Se ne torna a parlare mentre il governo di Gerusalemme evacua alcuni avamposti in Cisgiordania e si verificano scontri fra i coloni e l’esercito. E’ un dibattito sulla vita stessa d’Israele, perché l’Idf è l’anima dello stato ebraico. Nei giorni scorsi ha causato un terremoto il rapporto del centro studi dell’esercito: nel 2020 la Giudea e la Samaria, dove sorgono le colonie, saranno il primo bacino di arruolamento di soldati e ufficiali.

Finora l’esercito era riluttante a fornire le cifre, perché acuiscono lo scontro sociale e ideologico. Come spiega l’analista Yossi Klein Halevi, “è la peggiore crisi interna affrontata dalla nascita della nazione”. Si cominciò a comprendere l’impatto di questa rivoluzione nei giorni del ritiro da Gaza, quando una petizione per contestare l’evacuazione dei coloni venne firmata da 10 mila tra soldati e riservisti. Anche se rappresentano una minoranza (600 mila persone su sette milioni e mezzo), i coloni assumono un peso sempre più vitale nelle unità combattenti e quindi nella sicurezza di tutto il paese.

Lo confermano i dati appena pubblicati: il 61 per cento dei giovani nelle colonie si è offerto volontario in unità d’élite (nella zona borghese di Tel Aviv, la percentuale è del 36 per cento). Scrive il Jerusalem Post che fra i paracadutisti “tutti i vice comandanti sono ortodossi”. Il generale Yair Naveh è il primo religioso che guida il Comando centrale e ha una figlia che vive in un insediamento in Cisgiordania. “Tsahal diventa un esercito di periferie”, scrive Yedioth Ahronoth, secondo cui il contributo maggiore giunge – oltre che dalle colonie – dalle periferie povere e religiose, come Holon e Afula, una sonnolenta cittadina di provincia a nord di Tel Aviv.

Nelle settimane scorse i religiosi hanno cercato di modificare l’omaggio cerimoniale dedicato ai caduti, l’Yizkor. Al posto della formula “Israele non dimentica”, le parole “Dio non dimentica”. Per mezzo secolo i giovani israeliani educati nei licei religiosi o appartenenti a famiglie ortodosse hanno avuto un rapporto problematico con la divisa. Da un lato, il disprezzo paternalista dei socialisti. Dall’altro l’ostilità dei rabbini e delle famiglie pie, convinte che il servizio militare facesse perdere la fede, dal momento che il 70 per cento delle reclute religiose diventava “laica”.

Oggi non è più così: il 50 per cento dei religiosi diventa ufficiali; il 70 per cento serve in unità di élite; il 25 per cento continua la carriera militare; l’un per cento soltanto abbandona la religione. Demograficamente nelle colonie si cresce il doppio rispetto al livello nazionale (3,8 figli per famiglia contro 1,7). E’ sempre meno l’esercito del kibbutz e sempre più degli ebrei dalla pelle scura e del sionismo religioso, che vede una motivazione biblica nell’esistenza d’Israele.

Sei colonnelli su sette della brigata Golani sono nazionalisti religiosi, così come il 40 per cento dei cadetti (negli anni Novanta erano il due per cento). “Le kippah prendono il controllo dell’esercito”, scrive il giornale Maariv. Nei buchi lasciati liberi dai rampolli dell’élite laica e ashkenazita si trovano oggi soldati che sotto la divisa cachi indossano il manto di preghiera, il tallit katan, memento permanente di chi fa della propria vita una testimonianza sacra.

Giulio Meotti, 16 dicembre 2011

Fonte: Il Foglio

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