Non c’è mai stata una tv italiana così povera di offerte e così ricca di polemiche, complicità, sospetti. A farne le spese è tutto il sistema, ma la crisi più devastante si sta abbattendo sulla Rai: via Santoro, via Saviano, via l’Annunziata, via la Ventura. Il grande dibattito è se a condurre Quelli che il calcio sia meglio Victoria Cabello o la coppia Facchinetti- Balivo!
Come se non bastasse, in questo clima da «rompete le righe», riemergono inquietanti intercettazioni che portano alla luce quello che già amaramente si sapeva: Viale Mazzini non doveva «disturbare» Mediaset, anzi. Doveva posizionarsi in una funzione ancillare: sugli ascolti, sui palinsesti, sulla raccolta pubblicitaria. Del resto, quando in un’azienda pubblica entrano ai posti di comando uomini come Antonio Verro (ex dirigente della Edilnord), Alessio Gorla («Ho fondato Forza Italia, lavoro con il dottore da decenni, lui è stato mio testimone di nozze») o Deborah Bergamini (parlamentare del Pdl, ex assistente personale di Berlusconi, vice direttore del marketing strategico della Rai nel 2002), quando dirigenti e giornalisti non fanno mistero della loro fede politica per ottenere più potere, non c’è bisogno delle intercettazioni per sapere come vanno le cose. Basta osservare con attenzione i palinsesti, seguire le trasmissioni, leggere i programmi. Non abbiamo avuto bisogno delle confessioni di Gigi Bisignani per sapere che Mauro Masi è stato il peggior dg nella storia della Rai. E anche senza tirare in ballo «la struttura Delta» (un livello occulto della dirigenza Rai), ci si accorgeva del marcio vedendo che la raccolta pubblicitaria della Sipra misteriosamente arrancava (nonostante i buoni ascolti) e quella di Publitalia continuava a lievitare.
L’on. Bergamini parla ora di «un circuito mediatico-giudiziario malato che è un’anomalia tutta italiana», fingendo di non sapere che un’anomalia etica tutta italiana è che lei sia assurta ai vertici Rai, in uno dei tanti clamorosi casi di conflitto d’interessi. Nel frattempo, giustamente, Pier Silvio Berlusconi teme che l’ostilità montante nei confronti di suo padre possa nuocere a Mediaset: «Siamo un’importante realtà industriale, leader a livello internazionale, e vorrei che ci fosse riconosciuto».
Il paradosso sta proprio qui: in un dramma dal sapore freudiano, Mediaset avrebbe assoluto bisogno di liberarsi del «padre fondatore» per offrirsi solo come grande azienda di comunicazione, quale è, per occupare un posto di prestigio nel mercato globale, magari per sanare la crisi di Endemol, che è il suo «volto» creativo internazionale. I tentativi di smarcamento ci sono; giorni fa lo stesso Pier Silvio ha manifestato il suo disappunto per non essere riuscito a ingaggiare Giovanni Floris: «A noi manca un programma di approfondimento in prima serata. Un programma come Ballarò». La serata di presentazione dei palinsesti era condotta da Paola Cortellesi e Claudio Bisio, tanto per citare uno che era sul palco con Giuliano Pisapia. E non sappiamo quanto alla lunga sia condivisa l’idea di un’informazione Mediaset ispirata principalmente all’intrattenimento, al gossip, alla «leggerezza». Rinunciare all’autorevolezza non è un prezzo troppo alto, qualcosa che alla fine si ritorce contro?
Il sistema televisivo italiano, nel suo complesso, soffre di alcuni mali endemici che lo costringono sempre più a un ruolo periferico e la legge Gasparri – l’abbiamo sempre scritto – è il perfetto suggello di questa marginalità, di questo provincialismo che non sappiamo scrollarci di dosso. La Rai, un carrozzone parastatale che conta ben tredici canali, ha perso definitivamente la vocazione al servizio pubblico. Da tempo immemorabile è solo al servizio dei partiti, sinistra compresa, un bottino di guerra in dote ai vincitori.
Così non va. Avvilita e svigorita dalla lottizzazione, sembra non avere più futuro: ognuno corre per sé, si salvi chi può, quella che è stata la più grande industria culturale italiana è solo una balena spiaggiata alla mercé dei predatori. Per uscire da questa situazione, e restituire l’onore ai molti professionisti che tengono in piedi la baracca, non ci sarebbe altra via che la privatizzazione (ma, di questi tempi, chi se la compra la Rai?). La mancanza di concorrenza (solo Sky, che però è a pagamento, e in parte La7 sono riusciti negli ultimi tempi a dare una scossa) ha generato una mortificante stagnazione dei programmi. Abbiamo una tv generalista vecchia – in cui Maria De Filippi passa per la più innovativa –, incapace sia di interpretare i bisogni più profondi del pubblico tradizionale sia di intercettare quello più giovane. La nostra fiction viene da anni respinta alla frontiera di Ventimiglia.
In Rai si litiga, tutti contro tutti («piccole mafie», secondo l’Annunziata), invece di pensare a creare qualcosa di nuovo. Presi dall’infatuazione per le nuove tecnologie (canali, convergenza, HD, tv on demand…), ci si dimentica che queste tecnologie per esistere vanno riempite di programmi, di contenuti. Noi di questo scarseggiamo, di idee. La Rai negli anni 50 e Berlusconi negli anni 80 hanno dato vita a una fantastica invenzione: il tempo passa per tutti e se si usa la tv come un’arma impropria, alla fine l’arma fatalmente esplode.
Aldo Grasso, 1 luglio 2011
Fonte: Corriere della Sera