di Carmelo Burgio

Il recente intervento del neo-capo di Stato Maggiore dell’Esercito costituisce una pietra miliare in quello che è il rapporto fra il vertice tecnico delle Land Forces, e il mondo politico.

Siamo stati abituati a capi che hanno chiesto – sommessamente e quasi vergognandosi – più soldi, per vederseli tagliare a seguito dell’osservazione che in definitiva la più parte del sostegno finanziario servisse per stipendi e indennità, non per armare meglio o per lo sviluppo. Storia vecchia del resto, alla fine del XIX secolo il ministro Cairoli ebbe a sottolineare come le spese per il Regio Esercito fossero “improduttive”.

Questa volta però “il Capo” ha espresso un concetto diverso, più articolato, per il quale il potenziamento del sostegno finanziario, in definitiva, è solo una componente.

Cambiare l’Esercito, a prestare la necessaria attenzione al valore dei termini, non significa solo fornirgli mezzi per meglio adempiere al proprio compito, per assolvere la missione assegnatagli. Questa volta, inutile nasconderselo, il più grande sforzo lo dovrà proprio compiere quello che i nostri alleati d’oltre Atlantico appellavano “Green Machine”.

La mia generazione, quella immediatamente precedente e la successiva, son cresciute in tempo di guerra fredda. Abbiamo visto prima il nostro equipaggiamento aggiornato e migliorato prima per il sostegno statunitense, poi per le spese – sempre insufficienti, meglio dircelo – che i nostri governi e parlamenti hanno approvato. Ma ancorchè fosse cambiato il nemico, e aggiornata la dottrina, il nostro mestiere rimaneva quello che nonni, padri e bisnonni avevano praticato sul Carso, sul Piave, nei deserti e nelle savane africane, nella steppa russa, sui monti di Grecia, Albania e dei Balcani.

La guerra che ci attendeva era dura: freddo, pioggia e caldo cui resistere, buche e trincee da scavare e in cui rifugiarsi, notti da sfruttare per sfuggire all’osservazione e farsi sotto o ripiegare. E poi artiglieria e carri che dovevano spianarci la strada, o evitare che l’orso sovietico spianasse noi, e si viveva ossessionati dalla necessità di nascondersi e fortificarsi, rimanendo il più possibile invisibili. E mine da piazzare e dissotterrare, ponti da montare in fretta per scavalcare ostacoli, e rifornimenti da portare in linea.

Sapevamo, nell’intimo, che – con la tecnologia disponibile e le risorse che il nemico aveva in gran copia – la nostra aspettativa di vita fosse decisamente limitata, che sarebbe stato un calvario finire catturati: meglio tirarsi un colpo, l’ultimo rimasto nel serbatoio, in testa. Ci piegammo a quella realtà, consapevoli che se fosse scoppiata sarebbe stata un’esperienza micidiale, e pregavamo che i nostri governanti la tenessero lontana, la guerra. Accettammo – per amore di Patria, del nostro mestiere di soldati, e dei nostri Uomini – di vivere quell’esperienza al meglio, se proprio avesse dovuto crollarci addosso.

Per essere in grado di compiere bene il nostro lavoro si lavorava senza orari, senza straordinari, e allora anche il cittadino con cui ci interfacciavamo, di massima ci capiva. E accettava che scorressimo in armi le sue campagne, ci si nascondesse nei suoi fienili, tenessimo per noi qualche area dove addestrarci a scavare, sparare, correre. Del resto anche lui, e magari suo padre, suo nonno, il bisnonno, in grigio-verde, avevano trascorso la loro naja a far quelle cose astruse, ma che erano stati fieri di essere stati in grado di farle, di aver sofferto e sopportato, di essere stati capaci di fare il proprio dovere, comunque fosse andata alla fine.

Gioimmo nel 1989, quando IL MURO, THE WALL, cadde. L’Orso sovietico implodeva, avevamo vinto! Reagan e la sua micidiale partita a poker , con le spese dello scudo spaziale a forzare l’avversario a farsi finanziariamente male fino a non poterne più, avevano messo a terra l’avversario dell’epoca, che in un nulla perse la fascia di terreno procacciata da Stalin a Yalta, e quella che s’era procurata nel 1939 a spese di Polonia e paesi baltici.

Era scoppiata la Pace e, anzi, ora bisognava difenderla. Nati come piccoli Signori della Guerra, noi soldati diventammo gli alfieri della Pace. Coloro che avrebbero rischiato la vita per imporla e riportarla. Noi italiani poi, sempre pronti a ritagliarci un primato, ci siamo anche detti che eravamo così bravi in questo campo, che le nostre missioni fossero, tout court, “di pace”. Noi si andava dove serviva, distribuivamo medicine e viveri, strette di mano agli anziani del villaggio e carezze ai bimbi, e con un bel sorriso facevamo capire a tutti quanto fossimo buoni. Era fondamentale far capire ai nostri cittadini che noi la guerra non l’avremmo mai fatta. Manco per mantenere in piedi una gracile pace.

S’è così innescato l’inevitabile processo. A quel punto, al massimo, che cosa dovevamo saper fare? Un bel check-point era sufficiente, e per imparare a farlo va bene un cortile o il viale di una caserma. Inutili lunghe esercitazioni continuative, che ci facevano vivere alla macchia per giorni, altrettanto inutili le sofferenze che quell’addestramento imponeva. Inutili anche tante aree addestrative, meglio trasformarle in pascoli, campi di mais, risaie, spiagge per turisti. Inutile anche scavare, fra Hesco-Bastion e Co.Ri.Mec., si potevano costruire villaggi-Lego visibili da ogni dove, onde evitare che qualcuno potesse dire di averci colpito per errore.

Ecco … questo significa che l’Esercito deve cambiare. Non è solo un problema di carri armati o artiglierie di ultima generazione, non serve solo sviluppare droni, sensori, sistemi di comunicazione. Qui bisogna ricostruire uno spirito guerriero, e ammettere che tutte le comodità di cui hanno fruito i nostri giovani tenenti, quando comandavamo battaglioni e reggimenti, son destinate a rimanere nei musei. Occorre accettare il fatto che l’impegno bellico futuro sarà assai simile a quello di chi ci ha preceduto sul Grappa, nel deserto e nella steppa, che sarà durissimo perché l’evoluzione degli armamenti avrà reso ancor più arduo sopravvivere. Che il soldato dovrà tornare ad appropriarsi della notte, del maltempo, delle condizioni di scarsa visibilità. Dovrà interrarsi e sparire, dovrà porsi in condizione di colpire prima d’essere avvistato. Dovrà sapere che un’azione di guerra potrebbe in pochi minuti produrre un terribile salasso di sangue, ma sarà ancora necessario stringere i denti e tenere duro.

E per far ciò dovrà essere aiutato dalla sua gente, già, oramai da quella che la naja non l’ha fatta, per lavorare e addestrarsi. Gente che non dovrà avere paura di lui, ma convincersi di quanto il proprio soldato sia importante per la libertà. E serviranno aree adeguate, per provare tattiche e tecniche.

E dovrà soprattutto sperare che i suoi governanti quella guerra – che lui deve prepararsi bene a combattere per dissuadere il nemico dall’iniziarla, se non vuole pagare un prezzo salato – riescano ad evitargliela.

Cambiare l’Esercito sarà uno sforzo epocale, e onestamente ho paura possa rivelarsi compito immane. Difficile tornare indietro, e soprattutto arduo chiedere a chi si è abituato bene – il soldato e il civile – di recuperare un passato più scomodo. Di privarsi di ciò che – una volta acquisito – è diventato un diritto irrinunciabile.

 

 

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