di Luca Gambardella

Lo scorso 6 aprile, tre navi militari russe sono salpate dal porto siriano di Tartus per fare scalo due giorni dopo a Tobruk, nella Libia orientale. La corvetta Mercuriy ha scortato le altre due, la Alexander Otrakovsky e la Ivan Gren, che trasportavano un carico di blindati, camion e mezzi di artiglieria. Solo negli ultimi 45 giorni i russi avrebbero compiuto in Libia ben cinque consegne come questa, dice l’agenzia libica Fawasel. Il Foglio è riuscito a verificare in modo indipendente due di queste operazioni. L’ultima consegna è documentata da un filmato che mostra la colonna dei mezzi appena scaricati al porto di Tobruk, quello che il generale Khalifa Haftar ha promesso a Vladimir Putin per costruire una base navale russa, la seconda affacciata sul Mediterraneo dopo quella di Tartus.

La trattativa va avanti da anni, ma dopo lo scorso agosto, alla morte del capo della Wagner, Evgenij Prigozhin, i negoziati hanno subìto un’accelerazione. A dicembre, il viceministro della Difesa russo, Yunus-Bek Yevkurov, ha incontrato Haftar (nella foto) a Benghazi. I due hanno discusso del futuro degli African Corps, i mercenari russi della Wagner che ora sono inglobati nel ministero della Difesa di Mosca. Un mese dopo, il 29 gennaio, Yunus-Bek Yevkurov è volato a Benghazi un’altra volta, la quarta in pochi mesi. Il giorno dopo, il 30 gennaio, una nave cargo chiamata Barbat, che ha cambiato nome sette volte in dieci anni e che batte bandiera camerunense, ha attraversato il Bosforo.

Salpata dal porto russo di Novorossiysk, la Barbat era diretta a Tobruk e, come dimostrano foto e video scattate alla nave, trasportava camion militari del modello Ural 4320. Una decina di giorni dopo, il carico è arrivato a destinazione e l’emittente televisiva libica February ha trasmesso le immagini di un lungo convoglio con decine di carri armati russi modello T72 e altri blindati. Le riprese erano girate al “quartier generale delle brigate Tariq Ben Zayed comandate da Saddam Haftar”, figlio di Khalifa. Nonostante tutti questi viaggi, la missione navale militare europea Irini, che dovrebbe vigilare sul rispetto dell’embargo di armi in Libia e talvolta ottiene il permesso di fare perquisizioni a bordo delle navi sospette, fa sapere al Foglio che dal 2020 a oggi solo “in 4 occasioni queste sono avvenute su mercantili battenti bandiera della Federazione russa”.

Poi ci sono le rotte aeree fra Mosca e la Cirenaica. Secondo fonti locali citate da Agenzia Nova, in questi giorni un aereo cargo decollato in Russia ha fatto due scali nel sud della Libia, nel Fezzan, trasportando decine di militari alle basi di Brak al Shati e di Jufra. I tentativi degli americani per convincere Haftar a rinunciare agli aiuti militari russi finora hanno fallito. Il capo della Cia, William Burns, ci ha provato fino a metà gennaio, quando è arrivato a sorpresa a Benghazi per chiedere di persona al generale libico di voltare le spalle ai russi, senza però offrire nulla di meglio in cambio.

La strategia dell’aut aut da parte di Washington non ha sortito effetti nemmeno poco più a sud, in Niger. Dopo il colpo di stato nel luglio dello scorso anno, le relazioni fra Stati Uniti e giunta golpista si sono incrinate. A marzo, l’accordo di cooperazione militare fra i due paesi è stato stracciato dai militari di Niamey, pochi giorni dopo un bilaterale tenuto con una delegazione americana. Invece di portare il segretario di stato a trattare con i golpisti e chiedere di continuare a collaborare contro i terroristi islamici, Washington ha inviato Molly Phee, un’assistente di Antony Blinken. Una delegazione di basso livello che si è limitata a dare un ultimatum: o noi o i russi. Risultato, americani in ritirata – a oggi resta un contingente di appena mille uomini – e istruttori russi in arrivo.

La settimana scorsa è atterrato a Niamey un Ilyushin-76 con i primi militari dell’Africa Corps, come previsto dall’accordo di cooperazione militare siglato nel dicembre scorso con Mosca. Secondo John Lechner, un ricercatore che segue le vicissitudini della regione, “ironicamente il tentativo di Washington di osteggiare l’influenza russa in Niger ha fatto sì che i golpisti si legassero ancora di più al Cremlino. Gli americani non fanno i conti con la realtà: sono gli africani, non gli Stati Uniti o la Russia a decidere le sorti del Sahel”, ha scritto Lechner sul magazine Responsible Statecraft. Chi non ha voluto seguire la via oltranzista degli americani sono stati gli italiani e i tedeschi, gli unici occidentali che continuano a cooperare con i golpisti.

“Considerando che un’uscita delle nazioni occidentali dal Niger lascerebbe spazi all’allargamento della presenza di altri attori della regione anche malevoli, riteniamo di primaria importanza consolidare la nostra presenza con la missione bilaterale Misin”, ha detto la settimana scorsa in audizione alle commissioni Esteri e Difesa di Camera e Senato il comandante operativo di vertice interforze generale Francesco Paolo Figliuolo. Anche i tedeschi hanno deciso di continuare a dialogare con Niamey, che da marzo tratta con Berlino per concludere un accordo di cooperazione militare. “Sta al Niger decidere”, ha dichiarato salomonico Oliver Schnakenberg, ambasciatore tedesco a Niamey. “E’ un paese sovrano”.

Fonte: Il Foglio

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