Pubblichiamo l’intervento del generale di divisione (ca) Enrico Mocellin, già comandante del 78° reggimento fanteria “Lupi di Toscana”, in occasione del 30° anniversario del combattimento di Belet Weine (9 ottobre 1993)

Il 2 luglio 1993 l’Italia fu scossa dallo scontro presso il check point “Pasta” in Mogadiscio, che causò fra i nostri militari tre Caduti e numerosi feriti, fra i quali il sottotenente Gianfranco Paglia, medaglia d’oro al valor militare. Gli Italiani capirono allora che l’operazione umanitaria in cui i loro ragazzi erano impegnati si svolgeva in un ambiente molto pericoloso e talvolta mortale. Quello stesso anno al 78° reggimento fanteria “Lupi di Toscana”, del quale ero il 72° comandante, fu assegnato il settore nord della zona di operazioni di responsabilità italiana.

Con un raggruppamento tattico di 450 militari provenienti da 18 diversi reparti, dei quali 132 miei “Lupi”, trascorsi i quattro mesi più intensi nei miei quaranta anni di servizio e anche i più impegnativi di tutta la mia ormai lunga vita. Da capitano avevo trascorso un anno come osservatore dell’Onu (1982-1983) in Medio Oriente e avevo già rischiato la vita in situazioni difficili. In Somalia per la prima (e finora l’ultima) volta mi trovai ad esercitare il mio comando in uno scontro a fuoco. I nostri compiti erano umanitari e di sicurezza, con l’obiettivo di ricostituire le istituzioni dopo anni di guerra civile e anarchia. Ogni giorno dovevo prendere decisioni rapide che potevano avere conseguenze sui miei soldati, sugli altri contingenti dell’Onu, sulle Ong presenti nel mio territorio e sui civili somali, divisi in circa venti tribù rivali fra loro. Le mie forze erano divise tra un distaccamento in Matabaan, in territorio della tribù Abr Gedir, sostenitrice di Aidid e ostile all’Onu, cui inviai la compagnia meccanizzata dei Lupi di Toscana, quella che conoscevo meglio, dal comandante ai soldati. Il campo principale era a Belet Weine, dov’erano il mio comando, due compagnie meccanizzate – del 6° reggimento bersaglieri e del 66° battaglione meccanizzato “Valtellina” – e la compagnia comando e servizi, con specialisti da tutti i reparti della Brigata “Friuli”. Ogni giorno portava novità, tensioni e problemi.

L’incidente più grave avvenne il 9 ottobre 1993. La notte dell’8 – a quelle latitudini, la notte dura dalle 19 alle 7 – la mia guardia al ponte sullo Uebi Shebeli segnalò che nel centro della città era esplosa una bomba a mano, causando tre feriti. Alle prime ore del mattino un’altra pattuglia comunicava che nel centro della via principale c’erano due bombe a mano inesplose, tipo Srcm di produzione italiana: fino allo scoppio della guerra civile, l’Italia aveva sostenuto l’esercito somalo con addestramento e materiali. Inviai in posto un plotone motorizzato per mettere in sicurezza la zona, quattro squadre su altrettanti automezzi VM90: preferivamo utilizzare mezzi ruotati per evitare lamentele dalla popolazione e il  nucleo di  sei carabinieri assegnato al raggruppamento. Per la bonifica mi ero assicurato la disponibilità di un artificiere tedesco del vicino contingente, perché quello effettivo al mio campo era nell’autocolonna per prelevare i rifornimenti a Mogadiscio. Erano presenti sul posto anche poliziotti somali, purtroppo poco efficienti e affidabili. Monitoravano la situazione il comandante di battaglione dei Lupi, tenente colonnello Giovanni Bagattini, con l’ufficiale “I” di reggimento, tenente Mauro Bonfini. In accampamento, ero a colloquio con l’Ugaas Khalif, capo della tribù di maggioranza locale, gli Hawadle, per informarlo e chiedergli spiegazioni.

Il capo nucleo Carabinieri, vice brigadiere Gianni Gentilini, notava altre bombe a mano sul davanzale di una finestra all’interno di una vecchia caserma abbandonata. Fatto aprire il locale vincendo la resistenza di un probabile custode somalo, si scopriva un ingente deposito di armi e munizioni non dichiarato. Appena informato, ordinai il sequestro come da disposizioni Onu e nazionali e inviai due autocarri per la rimozione del materiale. La situazione degenerò rapidamente: una folla rumoreggiante si riunì lungo la strada. L’intervento degli anziani sul posto non ebbe effetto. Il tenente colonnello Bagattini fermò sul posto il plotone meccanizzato che si recava a dare il cambio alla guardia sul ponte, aumentando le proprie forze. Su richiesta dal commissario distrettuale fu accordata una  sospensione del sequestro, che però non calmava la situazione. Iniziarono lanci di sassi contro i militari italiani e la formazione di ostacoli improvvisati con copertoni e materiali vari. Chiesi all’Ugaas Khalif di recarsi in città e intervenire personalmente.

Con un VM di Lupi proveniente da Mataban mi recai in città dopo aver allertato la 3^ compagnia, che era a riposo per aver fornito la guardia al campo la notte precedente. Portai con me l’interprete Jusuf Maxamed Osman e vollero accompagnarmi un ufficiale e sottufficiale del mio comando. Giunti in centro, trovammo la strada bloccata da una lunga colonna di mezzi ruotati tedeschi. I soldati a bordo guardavano incuriositi la folla eccitata. La brigata logistica tedesca, 1500 uomini con 500 mezzi, aveva compiti esclusivamente logistici. Per la prima volta dopo la guerra mondiale la Germania aveva consentito l’impiego di truppe in operazioni fuori area, con resistenze all’interno dello suo stesso governo. Come comandante operativo del settore era mio compito garantire la loro sicurezza. Pensai che un coinvolgimento dei tedeschi in uno scontro a fuoco avrebbe potuto causare una crisi politica con conseguenze internazionali. Per mia fortuna riuscii a farli muovere e liberare la strada. Nel frattempo, Jusuf aveva cercato un contatto con un miliziano somalo, il quale gli aveva lanciato contro una bomba a mano. Me lo trovai davanti saltellante con uno zampillo di sangue intermittente dalla coscia destra. L’interruzione dell’arteria femorale porta al decesso per dissanguamento in pochi minuti. Ordinai ai miei due accompagnatori di portare immediatamente il ferito all’ospedale tedesco con l’automezzo e rimasi appiedato con la squadra dei miei Lupi. Chiamai il comandante di battaglione perché mi mandasse a prendere.

Mentre attendevamo il trasporto fummo oggetto di una sassaiola da ragazzi e adulti e ricevetti una sassata nell’occhio sinistro. Quando arrivò il mezzo cingolato, i miei soldati allibiti videro il loro colonnello che perdeva copiosamente sangue da un sopracciglio. C’infilammo in fretta nel mezzo e raggiungemmo la caserma. Sulla strada, copertoni in fiamme emanavano un denso fumo. Poco dopo miliziani, al riparo dietro muretti, cominciarono a lanciarci contro bombe a mano molto potenti e rumorose. Capi locali, folla e polizia si dileguarono e la situazione si fece chiara. Eravamo attaccati da elementi ostili e potevamo difenderci senza coinvolgere civili. Tentativi di colpirci con armi automatiche furono facilmente respinti dalla nostra superiore potenza di fuoco e dalla nostra organizzazione. L’addestramento propedeutico si dimostrava valido. Noi controllavamo la strada e procedevamo a caricare armi e munizioni sugli autocarri, i miliziani ci disturbavano con tiro indiretto. Provai immensa gratitudine per i tecnici stranieri che pochi giorni prima avevano montato sui nostri cingolati nuove corazze: posso garantire la loro efficacia contro il calibro 7,62 mm dei Kalashnikov. Quel giorno provai intense emozioni. Mi passò davanti un’autovettura con soldati feriti che rientrava a tutta velocità verso l’accampamento e l’infermeria. Ero preoccupato per le squadre che nel primo mattino dovevano fornire la sicurezza alla bonifica della bombe inesplose. Attaccate con armi automatiche e bombe a mano, i loro mezzi, gravemente danneggiati, non erano in condizione di muoversi. I soldati si erano messi in posizione protetta e si difendevano efficacemente. Furono recuperati dal loro capitano, Fabio Polli, che li raccolse sui suoi veicoli corazzati. Giunse dal campo il carro pioniere Leopard, che sgombrò facilmente la strada dagli ostacoli. Arrivò in città la 3^ compagnia del capitano Vincenzo Zauner, che assicurò la sicurezza del rientro al campo, bloccando con i mezzi e le loro mitragliatrici pesanti gli sbocchi dalla strade laterali. L’artificiere tedesco mi diffidò di caricare alcuni ordigni esplosivi perché per le pessime condizioni di conservazione potevano essere instabili: bombe da mortai e razzi Katiusha. Aggirai il problema facendo caricare le sole bocche da fuoco, senza le quali le bombe erano inutili. Nel rientrare all’accampamento continuammo a essere oggetto di fuoco nemico che non causò danni.

Lo scontro era durato quattro ore. Avevamo avuto la nostra prova del fuoco e ce l’eravamo cavata bene. Quella che doveva essere un’operazione tecnico-logistica di routine era diventata un conflitto a fuoco. Ci eravamo trovati in una situazione imprevista. Non avevo concepito un ordine di operazioni e dovemmo improvvisare. Sono orgoglioso dei miei uomini e di come si comportarono: disciplinati, controllati, efficaci. Nei quattro mesi successivi non diedero segno di traumi psichici e dormirono sonni tranquilli. Al combattimento parteciparono 136 militari italiani. A due di loro fu concessa la medaglia d’argento al valore dell’Esercito, ad altri sei la medaglia di bronzo al valore dell’Esercito. I nostri feriti leggeri furono sei, l’interprete Jusuf dovette purtroppo subire l’amputazione della gamba, le perdite somale dichiarate furono di due morti e sette feriti. Come tutte le bandiere dei reggimenti che parteciparono all’operazione “Ibis 2”, quella del 78° fanteria “Lupi di Toscana” fu decorata di medaglia d’argento al valore dell’Esercito. A differenza di altri Corpi, la motivazione riporta anche che il reggimento “il giorno 9 ottobre 1993 veniva coinvolto in un conflitto a fuoco di particolare intensità, a seguito del rinvenimento di un ingente quantitativo di armi e munizioni.” Tale ”ingente quantitativo” costituì il maggior sequestro condotto dalle Nazioni Unite in Somalia.

 

 

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here