di Antonio Bettelli

Più guardo al fenomeno ingenerato dalla pubblicazione del Mondo al contrario, leggendovi tra le righe, e più ho l’impressione di riconoscere nel suo autore l’eroe biblico Sansone. Un personaggio dai tratti paradossali che, marginalizzato da un apparato che gli ha riservato onori di seconda grandezza, ha deciso di infrangere il sistema valoriale e identitario di appartenenza proponendone il sacrificio come unica alternativa alla sua inattuata salvezza.

Se poi fosse che Sansone, a quel compendio di valori, non vi abbia creduto affatto e se i fini sottesi al manoscritto fossero nella realtà divergenti da questioni etiche, riconducendosi piuttosto a logiche d’interesse personale o particolare, allora l’atto paradossale messo in scena sarebbe solo apparente, ma pur sempre di paradosso si tratterebbe.

In quest’ultimo caso, ci troveremmo innanzi a una eterogenesi dei fini capace di trascinare l’organizzazione della Difesa in una complessità decisionale (se non in una vera e propria impasse) rispetto all’applicazione delle norme che ne regolano il funzionamento. Norme alle quali, fino ad oggi, quasi tutti noi militari ci siamo attenuti.

In realtà qualche episodio di perplessità si era già verificato in passato: casi in cui si era palesata la fragilità di un sistema disciplinare inadeguato a fornire strumenti chiari. Uno stato di cose che, in qualche occasione, aveva indotto i decisori a edulcorare gli effetti del procedimento a fronte dei casi più spinosi, prediligendo un’applicazione rigorosa della disciplina a fattispecie più accomodanti (tutti noi siamo stati puniti almeno una volta quando eravamo giovani allievi con motivazioni che a rileggerle ora a distanza di anni appaiono a dir poco risibili).

Lasciamo, tuttavia, che l’inchiesta sommaria faccia il suo corso.

Non sapendo quali siano i motivi che hanno indotto Sansone al gesto paradossale, posso solo limitarmi a ipotizzare che le due condizioni causali, quella etica e quella meno virtuosa, coesistano alimentandosi vicendevolmente.

Ciò che di fatto intravvedo nella contrarietà al buon senso dichiarata con enfasi letteraria dall’autore, mediante la definizione di un mondo soggiogato alla dittatura delle chiassose e colorate minoranze ultra-progressiste, è una denuncia, seppur in forma dissimulata, della perduta militarità alla quale le nostre Forze armate, e tra queste in particolare l’Esercito, sono state soggette sin dalle sorti del secondo conflitto mondiale.

Affinché uno strumento militare sia coerente con la sua fisiologia guerriera, non si può prescindere dal riconoscerne, alla base, un’idea di militarità scevra da ogni compromesso. Uno strumento militare efficiente, professionale e forte esige un postulato filosofico radicale e asciutto. Un paradigma assiomatico che si esprima attraverso pensieri e azioni virili e ruvide. Un approccio rifuggente dalle morbidezze imbelli della fluidità sociale alla quale l’inclusione delle diversità di genere, di etnie e di culture, difformi ai canoni della tradizione, si riferisce.

Definirei la visione del mondo al contrario profetizzata da Sansone come una prospettiva visiva parziale ma certamente esistente in alcune frange dell’organizzazione. Una visione dal profilo elitario, esclusiva, riservata a pochi, e soprattutto professata da chi si senta espressione di livelli di professionalità speciali. Nonostante la marginalità del fenomeno, i richiami dei profeti della militarità estrema sono molto suadenti nei riguardi di coloro (forse oggi non pochi) che nutrono in cuor loro qualche risentimento verso la tecnocrazia dirigistica dell’apparato. Ecco allora che Sansone genera con facilità proselitismo e trascina nel sacrificio paradossale i suoi adepti.

Ciò di cui sto parlando, cioè l’entità valoriale destinataria del presunto tradimento, è un prototipo culturale che non ammette né sostituzione né mediazione e che persegue la disponibilità di Forze armate coerenti con una cultura non solo militare ma anche politica e sociale di stampo autoritario. Una mentalità perciò razionale, pragmatica, lucida al limite dell’impudenza, concepita e strutturata per scendere in campo e per combattere ovunque necessario per la difesa dell’interesse nazionale.

Si tratta di una visione inadatta al cauto equilibrio istituzionale di una democrazia parlamentare come quella italiana, incardinata sul rifiuto di ogni forma di bellicosità al di fuori dei limiti imposti dal principio dell’autodifesa o al massimo estesa, nel ricorso della forza militare, a riconoscimenti planetari di legittimità. Una visione capace perciò di diventare scomoda, finanche antagonista all’ordine costituito, nel momento in cui essa si ritenga elusa dal protratto non riconoscimento dei sui bisogni fondamentali, oltre che dal disconoscimento dei fini d’impiego definiti dalla sua fisiologia di base.

Nell’intera vicenda vedrei, in particolare, una trasposizione dell’esigenza individuale, quella rappresentata da Sansone, su un piano sistemico. Riconosco, nel merito, tre livelli: quello appunto individuale, quello dell’organizzazione di appartenenza e quello nazionale. A fattor comune, ci si trova innanzi alla reazione per il mancato riconoscimento delle potenzialità possedute dal singolo, dalla forza militare e dalla nazione, a causa di un approccio perniciosamente contrario alla coerenza della militarità pura, bensì soggiogato all’accomodamento del politicamente corretto, al dovere del rispetto istituzionale, all’incauta accettazione di fenomeni corrosivi della tradizione, ancor più se questi divengono dittatura della variopinta minoranza tutelata.

Negli anni ‘90 si è optato per avere Forze armate esclusivamente professionali, e lo si è fatto con una certa qual fretta. Incombevano gli impieghi cosiddetti fuori area, per i quali i coscritti non erano più idonei. Nel passaggio si è forse omesso di valutare a fondo le conseguenze di quel repentino cambiamento, non comprendendo quale tipo di militarità la Nazione volesse esprimere. Credo che il punto sia ancora irrisolto.

Né più né meno di quanto accada quando si rammendi un abito liso utilizzando una toppa nuova, la trama forte del rimedio tende a produrre danni peggiori. La pezza ideologica della cultura militare professionale cucita sul tessuto politico e sociale di una Repubblica nata dall’epilogo della seconda guerra mondiale e avvezza alle sfumature culturali dell’accoglienza, della tolleranza e del soccorso può facilmente provocare strappi non più riparabili.

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