di Paola Peduzzi

Democrazia, libertà e diritti sono “parole vuote” per l’America, scriveva ieri un editorialista del Moskovsky Komsomolets commentando la visita del presidente cinese, Xi Jinping, a Mosca: “Non si può essere amici dell’America, si può solo essere suoi sottoposti”. Per questo l’incontro al Cremlino è di “importanza storica”, in quanto ribalta il dominio degli Stati Uniti sul mondo, e infatti per Washington l’alleanza tra Cina e Russia è “come un osso infilato in gola, l’America può rimanere soffocata”.

Secondo questo giornale – ma non è il solo nemmeno in occidente – l’Amministrazione Biden è talmente preoccupata dell’alleanza tra Xi e Vladimir Putin che ha imposto a Kyiv di non accettare in nessun modo alcuna proposta di pace che venga dall’alleanza di questi due regimi: così non soltanto si sostiene che è l’America che non vuole la pace ma anche che l’Ucraina ubbidisce agli ordini di Washington, anzi, è costretta a continuare la guerra. A corroborare questa lettura c’è il dibattito sempre aperto in Europa e in America sul sostegno militare a Kyiv: degli aiuti umanitari e finanziari non si parla quasi mai (come esempio imperituro c’è la Germania che aiuta l’Ucraina molto più di quasi tutti gli altri paesi dell’alleanza occidentale, ma resta comunque il paese “più riluttante” perché sull’invio di armi è molto cauto), mentre la discussione sull’esercito ucraino armato-fino-ai-denti dagli Stati Uniti è molto accesa.

Ora che le armi e i mezzi promessi durante l’inverno dagli alleati di Kyiv stanno arrivando, ora che l’inverno è finito e la minacciosissima campagna invernale di Putin è continuata come quella dell’autunno scorso, cioè con bombardamenti indiscriminati e pochi chilometri di terra ucraina conquistati, la questione del sostegno militare tornerà a essere predominante, come se questa guerra si riducesse tutta qui. Se ci si ferma a parlare di quanti aerei (finalmente) saranno a disposizione dell’Ucraina, o di quanti carri armati, la gestione della guerra diventa contabilità di stoccaggi negli arsenali, studio di carrozzerie all’avanguardia e altri tecnicismi vari, perdendo così di vista gli obiettivi e le strategie più ampi. Peggio: perdendo di vista che cosa c’è in gioco. Tra i repubblicani americani trova sempre più riscontro la semplice (e sciagurata) definizione che il governatore della Florida Ron DeSantis ha dato della guerra: “Una disputa territoriale” che non costituisce una minaccia alla sicurezza dell’America. Al di là del futuro politico di DeSantis – ha l’ambizione di diventare presidente degli Stati Uniti – e delle visioni differenti nella destra americana, la volontà di liquidare l’aggressione russa all’Ucraina come un affare regionale che non ha alcun impatto globale sta prendendo piede, complice il tempo che passa, l’assenza di qualsivoglia allentamento della brutalità russa e l’inefficacia, in termini di stabilità, della tanto tronfia alleanza tra la Russia e la Cina.

Se una guerra unprovoked come quella di Putin contro un paese che ambiva soltanto a dirigersi verso ovest – culturalmente, economicamente, geopoliticamente – diventa un conflitto regionale tra due paesi vicini che provano a prevaricare l’uno sull’altro, l’aggressione di Mosca perderà di gravità e di senso globale, tornerà a essere quella “guerra di attrito” che in Ucraina va avanti dal 2014. Che cosa accade dopo questa finta calma (tredicimila morti almeno) lo abbiamo scoperto nel 2022, quando Putin ha riattaccato di nuovo. Anne Applebaum è appena stata a Kyiv con il direttore dell’Atlantic, Jeffrey Goldberg, e con l’editrice del magazine americano, Laurene Powell Jobs: hanno incontrato Volodymyr Zelensky. La loro conversazione sarà pubblicata sul prossimo numero della rivista, ma intanto la Applebaum ha pubblicato un piccolo estratto con il titolo efficace: Zelensky ha una risposta per DeSantis – dove DeSantis rappresenta tutti quelli che hanno perso di vista che cosa c’è in gioco nella strenua e continuativa difesa dell’Ucraina dalla Russia. Zelensky dice di non voler parlare al cuore degli americani, ma alla loro testa, perché il sostegno a Kyiv non è una questione emotiva, ma molto razionale.

Se l’attacco russo non viene fermato in Ucraina, diventerà più ampio, lambirà i confini della Nato e magari ci entrerà dentro, e a quel punto gli alleati saranno costretti a inviare ancora più armi ad ancora più paesi – ammesso che ce ne sia il tempo. In Ucraina, l’esercito russo si avvale inoltre dei droni suicidi dell’Iran, che non hanno altro scopo se non uccidere civili: quanto tempo passerà, chiede Zelensky, prima che Teheran decida di utilizzare questi suoi mezzi contro Israele, visto che la ragione d’essere di questa leadership iraniana è distruggere lo stato ebraico? La domanda è sempre la stessa, “molto pragmatica”: quando questo accadrà, gli Stati Uniti aiuteranno Gerusalemme? Se non si ferma la Russia ai confini dell’Ucraina, il conflitto si allarga, perché se c’è una cosa che questa guerra ha dimostrato è che se Putin vede l’occasione (o la distrazione o la stanchezza o la disunione), attacca. Dove si ferma poi questo allargamento, può arrivare anche agli Stati Uniti. Questo è un rischio che gli americani non vogliono correre, ed è anche la dimostrazione del fatto che non siamo di fronte a una “disputa territoriale”. Aiutate l’Ucraina a combattere la Russia – riassume la Applebaum le parole di Zelensky – così nessun altro dovrà combatterla un domani, da un’altra parte. “E’ una questione di natura, è una questione di vita – dice il presidente ucraino – Tutto qui”.

Fonte: Il Foglio

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