Capace di piccoli-grandi gesti che avvicinano la Santa Sede al popolo di Dio. Non populista ma popolare. È il ritratto che lo storico Agostino Giovagnoli, ordinario alla Cattolica di Milano, fa di papa Francesco dopo i primi giorni di Pontificato già densi di indicazioni per il futuro della Chiesa cattolica. Un Papa che, come era accaduto con Wojtyla, è tornato a mobilitare le folle.

Si può già capire che papato sarà?

«Saldare il conto della camera dove ha pernottato prima del Conclave è un piccolo segno che va nella direzione di quella Chiesa povera e vicina ai poveri che egli ha invocato. La benedizione silenziosa ai giornalisti, tra i quali c’erano dei non credenti, è un’espressione di affetto che si estende al di là di barriere confessionali. Dire «Buonasera» dal loggione di San Pietro o «Buongiorno» all’Angelus di ieri è un modo per sottrarre questi saluti alla loro convenzionalità e caricarli del significato di una condivisione paterna».

Papa Francesco è populista o popolare?

«Il termine populista tecnicamente ha a che fare con la storia argentina. Ma sicuramente non è populista nell’accezione che diamo noi a questa parola. Popolare è un termine più adeguato. È stato il suo stile da arcivescovo di Buenos Aires, presente anche nelle favelas. Anche nella messa nella parrocchia di Sant’Anna si è messo a salutare le persone come un parroco. Il linguaggio che usa è colto e denso di riferimenti filosofici, ma è immediato, capace di conquistare in pochi giorni persone di ogni classe sociale».

La sua spontaneità è genuina o costruita?

«Intendiamoci su cosa si intende per ‘costruito’. La sua semplicità viene dalla spiritualità dei gesuiti, fatta di ascetismo, povertà, capacità di andare all’essenziale. Quindi è frutto di lunga maturazione spirituale. Ma è totalmente autentica: non un atteggiamento che viene utilizzato per provocare qualche effetto negli interlocutori, una scelta di vita che Bergoglio ha compiuto da molto tempo».

Papa Francesco ha sottolineato di essere vescovo di Roma. Si trasferirà al Laterano?

«Non saprei, credo che non lo farà. Ma sottolineando che è vescovo di Roma, mette in evidenza il primato pastorale e mostra una grande sensibilità ecumenica, perché il titolo di vescovo di Roma, assai più di quello di Vicario di Cristo, è molto gradito dalle altre confessioni cristiane».

È per questo che all’Angelus ha parlato solo in italiano?

«Penso piuttosto che non volesse interrompere il dialogo con la folla che gli stava di fronte a piazza San Pietro. Ha rotto un po’ la ritualità del saluto a tutti i pellegrini delle varie nazionalità, che certo è molto gradito da chi giunge da lontano, ma può diventare una forzatura che spezza il dialogo con i fedeli».

Iacopo Scaramuzzi, 18 marzo 2013

Fonte: Quotidiano Nazionale

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