Massud, l’eroe afghano della resistenza antisovietica ucciso il 9 settembre

La vita del cronista, specie nella categoria dei corrispondenti di guerra, comporta molti rischi ma al tempo stesso offre loro l’opportunità di assistere ai maggiori avvenimenti internazionali e conoscerne i protagonisti. Io, ad esempio, ho avuto la fortuna di imbattermi trent’anni fa nel grande comandante afghano Ahmad Shah Massud e, da allora, di frequentarlo assiduamente fino al giorno della sua tragica fine, il 9 settembre del 2001.

Quanto segue è un racconto fitto di ricordi (un misto di misteri gaudiosi e dolorosi) oltre che un omaggio al «leone del Panshir» nel decimo anniversario della sua scomparsa: una belva tutto sommato mansueta, il nostro eroe, che si aggirava nella valle natia, teatro di tutte le sue imprese, e poteva affermare poco prima di morire di «non aver mai giustiziato un prigioniero né aver mai dato ordine di farlo». Massud rimaneva perennemente inchiodato sui monti e nelle trincee del suo Panshir. Ed era proprio lassù che dovevi andare, se volevi incontrarlo. Tre settimane di cammino (in gran parte a piedi o con l’ausilio di mezzi di fortuna, un carretto, un furgone o magari un camion che procedeva rantolando sull’ultimo, ripidissimo tratto) per coprire circa 130 chilometri di strada. Arrivammo a Bazarak – il suo villaggio natale – che era già notte. Massud stava seduto al tavolo con un gruppetto di amici: parlavano a bassa voce mangiando noccioline e uva passa.

«E tu chi sei?», mi chiese in farsi (persiano) sgranando gli occhi. Parlava bene il francese, che aveva imparato a Kabul fin da ragazzo e quindi al liceo della capitale. S’era poi iscritto alla facoltà d’architettura, ma non riuscì a conseguire la laurea, travolto com’era dagli «impeti rivoluzionari» che, scriverà un suo biografo, «gli avevano mandato in fiamme il cuore e il cervello». Era in sostanza un carbonaro, una testa calda. La crociata di Massud era cominciata nel ’75 con un tentativo di sollevamento nel Panshir, subito fallito. La stessa cosa e lo stesso fallimento ebbero luogo quattro anni dopo, quando il potere sembrava saldamente nelle mani del presidente Nur Muhammad Taraki e del primo ministro Afizullah Amin. Al tempo del nostro primo incontro, nell’81, l’ex studente universitario fuori corso aveva appena 26 anni ma era già leggenda: che le epiche battaglie dei mujahidin contro gli sciuravi – i russi – avrebbero via via ingigantito.

Ricordo un giovane piuttosto schivo e taciturno, un volto pallido affilato, gli occhi grandi e scuri quasi sempre offuscati da un velo di malinconia. Niente di altero o d’autoritario nella sua persona, sapeva imporsi grazie alla sua forza interiore, impartiva ordini quasi senza parlare, gli bastavano gli occhi e un gesto sbrigativo nella mano per dire ai suoi ragazzi cosa fare, dove andare. Esibiva un pizzetto nero striato di fili d’argento che gli conferiva un’aria da cadetto moschettiere ottocentesco, ulteriormente accentuata dal Pacul, il mantello che sempre l’avvolgeva, qualunque fosse la stagione. Un coro quasi unanime di lodi si levò in quei giorni sulla «abilità strategica» di Massud oltre che sull’«efficienza della sua rete d’informazione», senza le quali – diagnosticò un ufficiale – «il grande baluardo della Resistenza del Panshir avrebbe potuto essere spazzato via una volta per tutte». E si arriva quindi a febbraio dell’89 quando ha inizio il graduale rientro in patria dell’Armata Rossa e sul ponte dell’Amu Darya s’intravedeva la sagoma di un generale sovietico che, mano alla visiera, saluta l’Afghanistan per l’ultima volta. Ma la pace non si addice a questo Paese, che pure in anni non troppo lontani sembrava un’oasi relativamente felice e spensierata, quando in Chicken Street – la strada più famosa della capitale – hippies e figli dei fiori bivaccavano lievemente inebetiti dall’alcol e dalla marijuana. Lo stesso presidente Karzai descrive in un libro autobiografico Kabul come «una città pulita, ordinata e discretamente cosmopolita…».

Nella mia ultima visita, tre anni or sono, trovai una Kabul «blindata», con matasse di filo spinato per le strade e posti di blocco ad ogni crocicchio: mentre sui muri delle case e nelle piazze giganteggiavano ovunque i ritratti di Ahmad Shah Massud, che è rimasto «il solo vero eroe nazionale, rimpianto da tutti». Nella meticolosa biografia tracciata dallo scrittore Michael Barry, il «leone del Panshir» viene definito, per la gentilezza dei modi e per un «profondo sentimento di pietà e clemenza» da cui non erano esclusi neanche i suoi nemici, Amer-Sahib, comandante-signore. In proposito, ricordo che aveva una cura estrema della propria persona, che si alzava prestissimo al mattino ma scendeva a colazione solo dopo un paio d’ore, profumato di lavanda. L’esodo degli sciuravi non pose fine alla belligeranza, come molti speravano. Per tre anni, il Paese è nelle mani del regime filosovietico di Najibullah, ma nel ’92, dopo la spettacolare occupazione di Kabul da parte del comandante tagiko e dei suoi guerriglieri, si ricomincia a sparare. Dal ’96, Massud rimase assediato nella sua vallata dall’orda dei «guerrieri di Dio», dimenticato da tutti. Lo vidi per l’ultima volta a Strasburgo, dov’era approdato il 7 aprile del 2001 per chiedere aiuto all’Europa. Si è presentato col suo vestito afghano, di lino bianco, il berretto di felpa buttato indietro sulla dura lana dei capelli. Aveva solo 47 anni ed era angosciato. «I governi europei – confidò con amarezza – non capiscono che io non combatto solo per il mio Panshir, ma per bloccare l’espansione dell’integralismo islamico scatenato a Teheran da Khomeini… Ve ne accorgerete».

L’attentato mortale ebbe luogo il 9 settembre del 2001 nelle baracche di Khoja Bahauddin, quartier generale dell’Alleanza del Nord, dove Massud s’era rifugiato per sfuggire ai suoi assassini che, eliminandolo, toglievano di mezzo un grande protagonista della Resistenza e anche il solo che godesse di rinomanza e prestigio internazionali. Fu così che i due kamikaze magrebini, presentandosi come giornalisti, lo accopparono con una videocamera imbottita di esplosivo. Qualche tempo dopo, in un colloquio col braccio destro di Massud, Khalili, che rimase gravemente ferito nell’attentato ma sopravvisse, appresi che i due strateghi avevano fatto le ore piccole discutendo di Victor Hugo e di Dante Alighieri. «Sai – mi confidò – il Capo non aveva fatto l’accademia militare, ma sapeva tutto di armi e strategia. Però era anche un uomo molto pio e un intellettuale. Nei ritagli di tempo leggeva poesie ai suoi soldati. Sostiene inoltre che quei farabutti di talebani, col loro fanatismo, avevano respinto l’Afghanistan indietro di cinque secoli».

Il «leone del Panshir» venne sepolto a Sareeka, sulla collina dei martiri, un’arida montagnola a nord di Bazarak, alla presenza di una folla enorme. Un mare di gramaglie. La vedova con i sette figli, sei ragazze e un maschietto, quest’ultimo di 13 anni, il più piccolo della brigata. Diversamente da Osama bin Laden e da Gulbuddin Hekmatyar che continuano a sognare la restaurazione di una teocrazia islamica che giustifica, anzi incoraggia i kamikaze a immolarsi per la «causa di Allah», Ahmad Shah Massud non ha mai assecondato questo genere di esaltazioni mistiche. Pur facendo parte di un partito fondamentalista – lo Jamiat-i-Islami, che fa capo a Rabbani – è rimasto per indole nel solco della moderazione, dove la ragione ha il predominio. Non si faceva scrupolo nell’ammettere che nel suo eventuale governo si sarebbe fatto spazio alle donne e avversava apertamente i talebani che le volevano mummificare nel chador e nel burqa. Visitando il santuario di Sareeka, un anno dopo la sua morte, ho avuto l’impressione che benché s’inginocchiasse cinque volte al giorno come vuole la tradizione islamica, il suo sguardo si rivolgesse più alle cose terrene che a quelle celesti. Una «deviazione» che i due kamikaze magrebini non potevano tollerare e che gli costò la vita.

Ettore Mo, 9 settembre 2011

Fonte:  corriere.it

Foto: Joshua Foust

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