di Mauro Masi

Gli attacchi cibernetici costituiscono una delle maggiori minacce alla sicurezza internazionale: il Global Risk Report per il 2020 del World Economic Forum li ha inseriti nei primi 10 rischi mondiali in termini di probabilità e impatto. C’è di più. Esiste il rischio che attacchi informatici diano il via a risposte convenzionali attivando veri e propri conflitti armati. Secondo fonti mediatiche israeliane, nel maggio 2019 il mondo ha assistito al primo caso (noto) di reazione con metodi «classici» a un attacco di cyberwar. Nello specifico, Israele avrebbe reagito a una pesante offensiva cyber attuata da Hamas con un contrattacco missilistico volto a distruggere (sembra con successo) il quartier generale informatico di Hamas.

Un tipico esempio di guerra asimmetrica perché combina soft e hard power. In realtà tutte le guerre sono asimmetriche: negli obiettivi, nelle strategie e nei mezzi (così scriveva Carlo Jean in un saggio del 2018). E lo sono da sempre. Le uniche novità oggi sono la rilevanza assunta dal cyberspazio e l’utilizzo di Internet e dei social media nella disinformazione, nella sovversione e nell’attacco per indebolire la coesione degli Stati e delle alleanze con un’efficacia e una capacità prima sconosciute: è ciò che si definisce infowar, una variante della cyberwar. Nel loro bel libro sull’Intelligence Economica (Rubbettino, 2011) Jean e Paolo Savona danno della cyberwar una brillante descrizione: «E’ estremamente dinamica, rapida e imprevedibile. Annulla il valore della distanza, del tempo, delle frontiere. Rende possibili sorprese strategiche molto più degli strumenti hard. Può consentire a piccoli gruppi o a individui singoli collegati in Rete di esprimere una grande potenza e provocare danni disastrosi». Le Nazioni oggi egemoni hanno da tempo capito l’aria che tira e si stanno comportando di conseguenza: negli Stati Uniti hanno costituito l’Office for Strategic Influence, che lavora sulla Rete e sui social utilizzando come consulenti alcuni dei più sofisticati hacker americani.

Israele, Cina e soprattutto Russia non sono da meno. Sono ormai all’ordine del giorno in Occidente le polemiche sulle ondate di fake-news che sarebbero generate da migliaia di account russi direttamente o indirettamente connessi con istituzioni pubbliche, mentre qualche tempo fa un’indagine del New York Times rivelò l’esistenza di un centro da cui partivano mega-attacchi informatici, un palazzone di 12 piani alla periferia di Shanghai, quartier generale dell’Unità 61398 dell’Esercito di Liberazione Popolare dove lavoravano «centinaia o anche migliaia di tecnici con connessioni in fibra ottica al altissima velocità di tipo militare fornite da China Mobile».

Quindi infowar e cyberwar sono già ampiamente in corso e ci si sta accorgendo quanto sia difficile la difesa da tali aggressioni, che peraltro si dimostrano tanto più devastanti quanto più si rivolgono a Nazioni tecnologicamente evolute. Hanno invece effetti minori quando si rivolgono a Paesi più arretrati, come dimostra l’incapacità degli Stati Uniti di piegare la Corea del Nord anche utilizzando attacchi cibernetici massicci. Da qui il rischio che la infowar diventi una guerra a tutti gli effetti.

Fonte: Milano Finanza, 2 aprile 2021

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