Navi da guerra e giochi di potere ma la voce dell’Europa non si sente

di Gianluca Di Feo

C’ è un momento in cui la vita del Mediterraneo è cambiata: all’improvviso la bonaccia decennale che aveva consolidato gli equilibri tra Stati e coalizioni si spezza, trasformandolo nel mare delle crisi. Jim Mattis, il generale dei marines a cui Donald Trump aveva affidato il Pentagono, è convinto tutto si sia rotto nell’agosto 2013. In quei giorni il regime di Bashar Assad lancia un attacco chimico contro un quartiere ribelle di Damasco. Washington aveva minacciato «ritorsioni enormi» contro l’uso dei gas e invece non fa nulla. «Da allora sostiene Mattis la Siria si è disintegrata in un inferno sulla Terra, c’è stato un flusso di rifugiati che hanno cambiato la cultura politica dell’Europa. E l’America si è ritrovata con avversari imbaldanziti e alleati scossi».

Il disimpegno americano apre un vuoto di potere, proprio quando nel Mediterraneo orientale si concretezza una realtà nuova: i fondali sono un Eldorado, che promette giacimenti colossali di idrocarburi. Risorse in grado di rivoluzionare l’economia della regione e accendere appetiti feroci. I russi, partendo proprio dalla Siria, sono i primi a cercare di occupare il baratro creato dal disinteresse della Casa Bianca. E poiché la chiave è il mare, tutto si gioca con le flotte. Schierando una portaerei, Putin dimostra di saper proteggere i suoi amici ovunque e a qualunque costo. Con i sottomarini fa capire al mondo che l’Alleanza Atlantica non ha più il controllo della situazione. Così frantuma i confini geopolitici, aprendo il via alla grande partita.

Il primo a raccogliere la sfida è Erdogan. Con un disegno che ricalca i fasti dell’impero ottomano, unisce espansione commerciale, accortezza diplomatica e determinazione bellica. Disinvolto, gestisce l’ondata di profughi per ricattare l’Unione europea. Poi cavalca la guerra civile libica per insediarsi con forza a Tripoli. Il suo piano strategico è chiaro: essere al centro di una sfera d’interesse allargata dall’Algeria al Pakistan, dall’Albania all’Azerbaijan, sfruttando le debolezze altrui per mettere le mani sui giacimenti e garantire un mercato alle sue industrie. Finora non ha trovato ostacoli. C’è un fronte arabo, guidato dall’Egitto e finanziato dagli Emirati, che teme la sua espansione e soprattutto la diffusione degli ideali islamici che ispirano il movimento dei “Fratelli Musulmani”. Nonostante le ambizioni del rais Al Sisi, però, questa coalizione non è riuscita a fermare i turchi in Libia: non ne ha la capacità militare. Senza poter contare nell’America di Donald Trump, ha trovato in Vladimir Putin l’unico referente: solo l’arrivo di stormi e mercenari russi ha imposto la tregua a Tripoli.

Erdogan vuole “territorializzare” il Mediterraneo: traccia nuove frontiere sulle acque, ignorando i trattati precedenti e le concessioni petrolifere assegnate ad aziende francesi, italiane, statunitensi. Il Sultano ha fretta. Per questo ha portato il confronto sul fronte più caldo, quello con la Grecia, scatenando una crisi in piena estate davanti alle isole del Dodecaneso. In ballo non ci sono soltanto i giacimenti al largo di Cipro, ma il riconoscimento del ruolo di potenza. Con la sua flotta provoca la Nato, restandone all’interno, e fa emergere tutte le contraddizioni dell’Unione europea. Perché in questi giochi senza più frontiere Bruxelles mette a nudo la debolezza nell’esprimere una politica estera e nel mettere in campo uno strumento militare adeguato.

Solo la Francia cerca di proiettare un’immagine di grandeur nel Mediterraneo, temendo di essere tagliata fuori dalla sua antica zona d’influenza. Mandare la portaerei Charles De Gaulle a mostrare la bandiera a Cipro per ribadire le prerogative di Total è facile, molto più duro costruire soluzioni politiche: l’impegno personale di Emanuel Macron in Libano ha sortito risultati effimeri. E neppure l’assertivo sostegno ad Atene sembra aver intimidito Ankara. Erdogan ha un’unica paura: il ritorno in scena degli Stati Uniti. Sa di non poter affrontare contemporaneamente Washington e Mosca. E in questi giorni al conflitto che l’oppone ai russi in Nagorno Karabakh si è aggiunto l’attivismo elettorale di Mike Pompeo, che ha schierato nuove navi a Creta e promette tutela agli interessi greci, coincidenti con quelli dei colossi petroliferi Usa. Soltanto per questo, il Sultano ha rallentato la marcia e accettato le trattative: dopo il voto americano, riaccenderà i motori.

L’esempio turco non è rimasto isolato, scatenando una corsa agli armamenti mai vista prima. Il Cairo accumula mezzi navali sempre più moderni e rivendica un suo spazio, partendo proprio dai campi di gas a largo di Alessandria. Israele presidia con la flotta i giacimenti nei fondali che si estendono fino alla costa libanese. L’Algeria esibisce missili a lungo raggio lanciati da sottomarini e una piccola portaerei per ricordare le sue pretese fino alla Sardegna. Sembra quasi che il Mediterraneo sia destinato a vivere in una nuova condizione, dove la parola “pace” non esiste più. Lo ha teorizzato in un’intervista a Repubblica pochi giorni fa l’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, comandante della Marina italiana: «Sono saltati i paradigmi e questo ci obbliga a cambiare mentalità. Prima tutto avveniva in tre fasi: pace, crisi e conflitto. Ora invece viviamo una costante competizione: non c’è più la vecchia idea di pace, si passa dalla competizione alla crisi».

Biden o Trump, è difficile pensare che il prossimo inquilino della Casa Bianca torni a farsi carico degli equilibri. L’unica risposta stabile può venire dalla Ue. «È ora che l’Europa si riprenda il Mediterraneo!», ha scritto l’ammiraglio Faverie du Ché in un editoriale sulla rivista delle forze armate francesi. Perché ciò accada c’è bisogno di una consapevolezza diversa nelle cancellerie europee. E di un risveglio dell’Italia, che dall’insediamento del governo Conte ha completamente dimenticato il “Mare Nostrum”. Ci barcameniamo da una crisi all’altra, inseguendo le emergenze senza mai riuscire a essere protagonisti. E così siamo destinati a subire le iniziative altrui: con il rischio poco alla volta di non potere tutelare gli interessi nazionali, a partire da quelli fondamentali dell’Eni, tutti concentrati in questo bacino.

Fonte: la Repubblica, Affari&Finanza

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