Il diario di un alpino rimasto paralizzato in Afghanistan: «Rifarei tutto»

Quando parti per una missione così impegnativa, sai che qualcosa può andare non come avevi previsto. Lo sai. Siamo stati addestrati per essere pronti a tutto. È vero. Ma finché non lo provi sulla tua pelle, non ti rendi conto di cosa vuol dire. Non si può spiegare cosa significa diventare fratello di altri sette ragazzi dopo quasi cinque mesi di missione, dopo aver condiviso tutto, il mangiare, il bere, la sabbia, il freddo, il caldo, la paura di saltare su qualche mina e poi svegliarsi di colpo in un letto di ospedale sentendoti dire che uno di quei fratelli non c’è più. A questo non ero pronto. A questo proprio no.

Non ho mai messo in dubbio il mio lavoro e il lavoro di tanti italiani in Afghanistan. Ancora oggi credo che sia doverosa la nostra presenza in quei territori. Noi cerchiamo di portare la pace là dove regna incontrastata la guerra ma non è facile. Non è facile quando accadono episodi come questo. Non è facile dall’esterno comprendere il perché siamo lì. Sorgono tante domande. Tanti perché. Lo so. Ma ripensare al bambino che mi ha portato l’acqua sull’OP ed ha sorriso per i biscotti o rivivere quando consegnavo gli aiuti umanitari ai civili afghani mi fa capire che il nostro è un duro mestiere ma che va fatto. Nel migliore dei modi.

I miei compagni di squadra, i miei fratelli, fanno a gara per venire a trovarmi. Non tutti hanno avuto la forza di vedermi così, immobile. Totalmente diverso da come ero pochi mesi fa. Forse non se la sentono, forse è ancora troppo presto o, semplicemente, non sono così poi attaccati a me. Di quelli che erano là quel giorno con me su quella collina sono venuti tutti. Tutti. Le uniche parole che mi hanno detto e che per me valgono tantissimo sono: “Luca non ti arrendere”.

Ho dato tanto in Afghanistan e ho lasciato tanto. Un domani, se riuscissi a recuperare abbastanza da poterci tornare e fosse ancora lontana la possibilità di avere una famiglia e di avere figli, si, tornerei. Tornerei per i miei sogni, per i miei ideali. Se invece non sarò più “io” ma sarò “noi”, se avessi Sarah sempre al mio fianco forse penserei più a lei che a me. Non vorrei più far passare a lei, come alla mia famiglia, ciò che stanno passando e vivendo da gennaio.

Se qualcuno mi dicesse: “Togliendo Luca Sanna, rivivresti tutto? Consapevole che dopo cinque mesi di missione finiresti su una carrozzella …” probabilmente risponderei sì. La missione mi ha insegnato tanto e mi ha fatto crescere tanto. Se si potesse escludere la morte di Luca e mi venisse chiesto di rifare questa esperienza la rifarei. La rifarei. L’Afghanistan non mi ha indurito. Mi ha migliorato. Ho avuto momenti molto duri, di sconforto. Momenti in cui sono stato davvero molto male ma ora questa per me è la normalità. Dire che ci tornerei a chi non mi conosce, non capirebbe. Ne sono sicuro.

Le persone che mi vedono si commuovono. Piangono. Ma per me dire che ci tornerei è normale, nonostante le conseguenze subite. Se un ragazzo mi dicesse: “Luca mi voglio arruolare” io risponderei solo di seguire il suo cuore. Proprio come l’ho seguito io. Ognuno ha la sua strada. È giusto combattere per realizzare i propri sogni. Dopo quello che mi è successo ho avuto paura di ritrovarmi solo con i miei problemi e le mie battaglie da combattere ma fin da subito la mia famiglia e gli alpini hanno fatto il possibile per farmi sentire al sicuro.

Non mi hanno lasciato neanche un momento solo nella mia stanza di ospedale. Sono venuti ogni giorno a farmi coraggio e a motivarmi sempre di più. Non hanno mai smesso di credere in me, mi hanno sempre dimostrato che se sei un alpino e stai scalando una montagna e un imprevisto ti rallenta, i tuoi compagni rinunceranno anche alla vetta pur di non lasciare indietro un amico. Per me essere alpino significa essere un soldato addestrato e preparato a vivere e combattere nell’ambiente montano ma soprattutto essere parte di una grande famiglia che condivide tutto ciò che la vita riserva e dove tutti remano nella stessa direzione per raggiungere lo stesso obiettivo.

I mesi passano ma la vicinanza delle persone, anche sconosciute, rimane fortissima. Le persone comuni continuano ad essermi vicino, a scrivermi perfino su facebook. Ci sono gruppi con più di duemila persone che mi incoraggiano di non mollare. Mi scrivono tutti i giorni. Gli alpini sono la mia famiglia. Non mi lasceranno mai da solo. Mai. Mi sono stati vicini dall’inizio e lo saranno fino alla fine. Ne sono sicuro. Fino alla fine ed oltre.

Prima vedevo il ministro della Difesa o tanti generali a una, due o tre stelle solo in televisione. Mi sembravano tanto lontani da me. Da me che sono un Caporal Maggiore. Vederli in piedi, accanto al mio letto, mi ha fatto capire che anche loro sono “umani”. Che anche loro hanno un cuore e che non sono poi così distanti da me. Non li vedo più con distacco e con timore riverenziale. Nei loro occhi vedo una luce strana. Come tutte le persone vorrebbero chiedere, informarsi, sapere ma alla fine si trattengono. Hanno quasi timore nel farmi domande. (…)

Credo che il tempo della sofferenza per ciò che è stato ormai è passato. Ora, per me, è iniziato il lavoro per ciò che sarà. Per il mio futuro.

Luca Barisonzi, 18 dicembre 2011

Fonte: Il Gazzettino, Udine

 

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