10 giugno 2013. I nostri 53 militari caduti in Afghanistan sono sicuramente una ferita aperta. Ma rappresentano anche la nostra «meglio gioventù» che mette a rischio la propria vita per ridare vita e dignità a un popolo che ormai da quasi mezzo secolo conosce solo faide, guerre di occupazione e scontri.
Il lavoro dei nostri militari è enorme. Forse molti non lo sanno, ma la realizzazione degli ospedali di Herat e il carcere femminile, nonché la sistemazione di numerose strade è frutto del lavoro delle truppe italiane. Un impegno che si evince anche dalle cifre stanziate. In 10 anni l’Italia ha investito 4 miliardi, di cui il 13 per cento in opere civili: nella sola zona di Herat 81 scuole, 49 strutture sanitarie, un ospedale pediatrico, un centro giovanile, un carcere femminile, 20 edifici pubblici ristrutturati, 715 pozzi, 25 strade, 20 canali, ponti nella Zirko Valley e Karta Bridge.
Una realtà difficile e complessa fotografata in tutte le sue contraddizioni, in tutti i suoi chiaroscuri, dall’inviato di guerra del «Tempo», Maurizio Piccirilli. Il suo volume «Ferita Afghana», edito da Mursia, è appena uscito in libreria e dolorosamente attuale. «Perché ci sono le storie e i drammi dei nostri soldati – racconta l’appassionato “giornalista con gli anfibi”, 59 anni – , ma c’è anche quel «grazie» della gente afghana declinato nei vari dialetti, dal “Sta na shukria” in lingua pasthun delle province orientali e del sud, al “Tashakkor” di quelle occidentali più vicine all’Iran e il “Maninah”, utilizzato in gran parte del Paese. Grazie per tutto quello che il nostro Paese sta facendo per loro».
L’Italia è attualmente il nono donatore in termini assoluti e nel 2008 si è collocato al primo posto in termini di rapporto fra pledge e finanziamenti effettivamente erogati. Solo in quell’anno, grazie agli interventi di cooperazione, nelle sole zone di Herat, Farah, Baghdis, vennero spesi 53 milioni di euro per lo sviluppo dell’agricoltura, la governance e la crescita delle istituzioni civili. L’aeroporto di Herat, realizzato con il contributo italiano, sta conoscendo uno sviluppo notevolissimo del traffico nazionale e internazionale. E ancora: in Afghanistan il morbillo è ancora una malattia mortale e le vaccinazioni eseguite dai medici militari italiani nei villaggi più sperduti ne hanno diminuito l’incidenza letale. «Da quando le Forze Armate italiane operano in Afghanistan – racconta Piccirilli – è aumentata l’aspettativa di vita, mentre le morti di parto di parto sono diminuite del 30 per cento. E, nella regione sotto controllo militare italiano, il tasso di alfabetizzazione è del 50 per cento superiore a quello nazionale».
In nome di tutto questo lavorano i militari italiani. Il libro – con la presentazione del generale Claudio Graziano, Capo di Stato Maggiore dell’Esercito e la prefazione della Medaglia d’Oro Gianfranco Paglia – raccoglie la testimonianza di dieci di loro.
Ecco allora Pamela Rendina, primo caporalmaggiore del 2° alpini di Cuneo e prima donna soldato colpita in azione. Una bomba taleban le ha frantumato le ossa, ma lei non perde l’ottimismo e ci scherza su: «Sono diventata la meteorologa del reggimento. Ogni volta che cambia il tempo sento i dolori».
C’è chi piange quando un commilitone «rientra in Italia avvolto nel tricolore». E c’è Floro Guarna, caporalmaggiore dei bersaglieri ferito da un razzo che ricorda il monito «occhio ai bambini: quando mancano dal villaggio significa che c’è il rischio di un attacco».
Grazia Longo, 10 giugno 2013
Fonte: La Stampa