Molti migranti musulmani non crescono i propri figli nella mentalità del paese ospitante, ma del paese di origine e quando si tratta di rispettare le regole pretendono un trattamento differenziato in nome della loro religione, scrive il romanziere spagnolo Arturo Pérez-Reverte su XL Semanal
“Sono seduto sulla terrazza di un bar di una cittadina del nord Italia e, nel giro di mezz’ora, vedo passare una dozzina di donne musulmane con il volto coperto tranne gli occhi” scrive il romanziere spagnolo Arturo Pérez-Reverte (nella foto) su XL Semanal, il settimanale del quotidiano spagnolo ABC. “Alcune tengono per mano i bambini, altre portano le buste della spesa, e guardandole penso alla fredda ineluttabilità della storia, al fatto che la trasformazione geopolitica del Mediterraneo oggi avviene attraverso le navi della fortuna e che le ondate di migranti sono un fattore irreversibile di civiltà. Verso una nuova Europa che non assomiglia per niente alle altre. Ma quando si ha una certa età e si ha una biblioteca, rendersi conto di ciò non è né drammatico né terribile. La storia è fatta di civiltà crollate e non sempre abbiamo il privilegio di assistere al declino di una di esse. Siamo d’accordo: l’immigrazione è inevitabile e necessaria. Senza questa forza lavoro, senza questo sangue nuovo, la vita qui non sarebbe più vivibile, l’economia andrebbe in rovina, la piramide delle età sarebbe profondamente invertita e la sicurezza sociale diventerebbe impossibile. Al cittadino europeo, cresciuto nel welfare e da esso indebolito, vengono sostituiti sangue nuovo, ambizioni legittime, tenacia di persone più forti. Qui sta il problema principale del Vecchio continente: un conflitto insolubile, conseguenza della codardia, dell’avidità e della stupidità europea. Tutti i governi, temendo di essere etichettati come islamofobi o razzisti, commettono gli stessi errori da decenni, senza imparare nulla dai problemi di sicurezza, ghettizzazione e applicazione delle leggi islamiche nelle città e nei paesi (…)
Questo ci porta al cuore del problema: gli immigrati musulmani si lasciano alle spalle la povertà, ma portano con sé la loro religione e il loro modo di vivere. Poiché l’Europa, egoista e stupida, non è stata in grado di offrire loro integrazione e uguaglianza, preferiscono vivere secondo i propri usi e costumi. Questo è il motivo per cui molti migranti musulmani non crescono i propri figli nella mentalità del paese ospitante, ma del paese di origine. Hanno le loro moschee, i loro quartieri, le loro scuole, la loro televisione; godono di diritti inaccessibili nel paese d’origine, ma quando si tratta di rispettare le regole pretendono un trattamento differenziato in nome della loro religione. E poiché non si lasciano ingannare, si rifugiano nella nostra stessa retorica. I giovani ci disprezzano, considerandoci deboli e contraddittori, mentre vedono l’islam radicale come forte e attraente. L’Europa è il cancro, gridano, l’islam è la soluzione. Con la vostra democrazia, distruggeremo la vostra democrazia, ecc.
La parola è stata inventata dai greci: ‘oikofobia’, odio per la casa, per il luogo in cui si vive. Il problema sta in questa contraddizione: per necessità l’immigrato deve essere accettato e integrato; ma la sua eredità culturale e storica si scontra con quella di un’Europa che non riesce a chiarire la propria identità. Le regole del gioco non sono mai state spiegate loro chiaramente: trovate lavoro e guadagnatevi il rispetto, ma rispettate voi stessi le regole. Portate i vostri figli a scuole che li integrino, non chiamate vostra figlia la mia ‘puttana’ perché indossa la minigonna, non fatela sposare con qualcuno che non ama, non mutilatele il clitoride, non copritele il viso o la testa fin dal primo ciclo. Avete qualità che rispetto; impariamo gli uni dagli altri e comprendiamoci; altrimenti, ecco la porta. Ciò non è stato fatto quando poteva essere fatto e oggi è troppo tardi. Il tempo è passato. L’Europa ne sta pagando le conseguenze”.
Fonte: Il Foglio