di Andrea Nicastro

Il generale Iannucci, comandante della Nato: «Per il Paese è un momento chiave: dobbiamo evitare che l’instabilità ricada su di noi»

Il generale Giovanni Iannucci è stato per un anno in Iraq a capo di una missione Nato diversa da ogni altra. Inaugurata nel 2018 e progressivamente cresciuta, questa missione, spiega il comandante italiano, «non addestra soldati, non distribuisce armi e non dà soldi», ma «lavora sulle cause, perché se si contrastano solo gli effetti non si va lontano». «Quando la sicurezza manca, diventa una priorità», ma è non basta se «non va di pari passo con servizi, qualità della vita, contrasto al cambiamento climatico, educazione e aspettative di vita, sviluppo».

L’Iraq è ancora sconvolto dalle conseguenze dell’invasione americana del 2003, dal terrorismo, dalla mancata ricostruzione, dalle ingerenze di Iran e Arabia Saudita, persino dalla siccità che ne ha fatto il quinto Paese più colpito al mondo dal cambio climatico. Per Ianucci il rischio è che gli iracheni capaci «andranno via. Gli altri saranno di nuovo attratti dal terrorismo».

Generale, non è frequente sentir parlare così un militare.

«A me è toccato imparare la lezione in Somalia da giovane paracadutista. Non basta avere le idee giuste o fare le cose bene. Se la popolazione locale, i suoi leader, non le accettano si fallisce».

Traduco: non si esporta né la democrazia né la sicurezza?

«Nel mio campo o più in generale nel buon governo, non conviene imporre un sistema. È più efficace discutere e individuare la soluzione più congeniale per loro, non per noi».

L’Occidente è in Iraq da più di venti anni, lei è l’unico ad aver pensato una cosa che sembra così ovvia?

«Guardi che non sto accusando i miei predecessori anche perché dovrei essere il primo imputato. Sono stato a Nassiriya (Iraq) da tenente colonnello. Però è un fatto che questa è la prima missione che si è presa la briga di definire assieme ai locali, non al loro posto, che cosa si dovesse fare. Ci siamo riusciti per due ragioni. Perché abbiamo trovato un governo con la volontà di riformare il sistema e per il concetto strategico Nato approvato a giugno 2022 a Madrid».

Cioè?

«Siamo qui non perché siamo buoni e generosi, ma perché è nel nostro interesse. Se li aiutiamo a rafforzare la loro sicurezza e a stabilizzare questa parte di mondo, in realtà stiamo tentando di prevenire che l’instabilità ricada su di noi».

Funziona?

«Ci vorrà una generazione, forse più, per risolvere i problemi iracheni. Qui l’85% della gente ha un lavoro pubblico, nel lungo periodo è insostenibile. Bisogna migliorare servizi, scuole, assistenza sanitaria. Soprattutto avviare una vera economia. Il governo è consapevole di avere una finestra di opportunità breve. Qualche mese, forse un anno per mostrare i primi risultati».

Altrimenti tornerà il terrorismo dell’Isis?

«L’Isis come minaccia sistemica e controllo del territorio è morto. Lo dimostrano il numero degli attacchi e la loro tipologia. Il terrorismo però può rinascere intrecciato alla criminalità, al traffico di droga. Per contrastarlo c’è bisogno di polizia, intelligence e collaborazione con i Paesi circostanti. Tutte capacità che l’Iraq non ha».

Il suo aiuto, quindi, non è servito.

«Un anno non basta, ma parto il 25 maggio (oggi, ndr) convinto che governo e vertici militari iracheni ora sono consapevoli e hanno avviato le prime riforme. Forse il panorama geopolitico oggi è più favorevole».

E noi cosa ci guadagniamo?

«Quando parliamo di pericolo immigrazione dobbiamo capire che a Sud dell’Italia esiste uno squilibrio demografico associato a condizioni di vita e sicurezza del tutto inadeguate. Tutto ciò provocherà una spinta migratoria verso Nord che non saremo in grado di gestire. Non durerà mesi, ma decenni. Dobbiamo lavorare sulle cause. In Iraq lo stiamo facendo».

Si riuscirebbe ad assistere tutti? Tunisia, Siria, Sudan, Libia…

«Ho avuto circa 600 persone alle mie dipendenze da tutti i 30 Paesi Nato più Australia, Finlandia e Svezia; come italiano ho goduto del coordinamento del Comando Operativo di Vertice Interforze del generale Figliuolo. Lo sforzo di ogni singola nazione diventa sostenibile e quindi sì, il modello è replicabile altrove. Non è la panacea, ma se i Paesi ospitanti lo vorranno, saremo utili per evitare altre tragedie. Loro e nostre».

Fonte: Corriere della Sera

Foto: Shafaq News

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here