Pace, pacifismo, Resistenza. I doveri dell’oggi nel mondo della divergenza. Un saggio

di Stefano Ceccanti*

Pace, pacifismo, Resistenza. Partirò dal terzo termine perché esso illumina in modo efficace le riflessioni su pace e pacifismo. La Resistenza, nel suo pluralismo, è alla base della nostra Costituzione repubblicana, ne costituisce il fondamento.

Non si tratta solo di ricordare qui che la Resistenza era anche un fenomeno armato e collegato a un’alleanza internazionale, pur se non riducibile ad esso e già questo ci dovrebbe illuminare nell’interpretazione del testo costituzionale e delle sue conseguenze politiche.

Ricordiamone però anzitutto il senso attraverso un importante brano di Pietro Scoppola nel suo volumetto su “25 aprile. Liberazione” edito da Einaudi:

“Il processo di liberazione non è mai compiuto: non è compiuto nelle coscienze dei singoli, non lo è nella vita sociale. La liberazione dell’uomo, di tutti gli uomini, dall’oppressione, dalla miseria, dall’ignoranza, dalla paura – e in una parola dal male – è un obiettivo sempre valido, sempre necessario e sempre aperto. La cultura della liberazione non implica un punto di arrivo, non ha, come la cultura della rivoluzione, modelli definiti di società da proporre, si coniuga con il realismo della politica, ma rappresenta un principio costante di non appagamento rispetto a tutti i risultati raggiunti e costituisce perciò quell’elemento di tensione utopica che tiene viva la democrazia e ne garantisce lo sviluppo.”

La Resistenza è quindi opposizione al male in vista di una Liberazione, non si arrende ai limiti del presente. Ma la Resistenza è anche processo aperto, sa che dal male non ci si libera una volta per tutte, la Liberazione non è il paradiso sulla terra, come proposto da alcune religioni secolari, richiede istituzioni che prevengano e, nel caso, fallita la prevenzione, che consentano di reprimere il male.

La Liberazione come ricorda Micheal Walzer in “Esodo e rivoluzione” edito da Feltrinelli ci conduce a una terra promessa che è senz’altro migliore della schiavitù d’Egitto, e per questa ragione vale la pena di intraprendere la strada dell’Esodo, contro la nostalgia delle cipolle d’Egitto, delle piccole sicurezze della schiavitù, ma la terra promessa non è a sua volta priva di contraddizioni. Quella di Walzer è una lettura riformista e realista dell’Esodo come costante esperienza umana e corrisponde del resto anche a quella che propone un brillante pensatore francese Jacques Julliard nel suo “Le choix de Pascal” edito da Flammarion. Quest’ultimo ci ricorda che il cristianesimo è portatore di un disegno di liberazione, di un’istanza di redenzione del mondo, che ha anche conseguenze politiche, ma al contempo è altresì portatore della consapevolezza del peccato originale, che la realtà terrestre è costitutivamente intessuta anche di peccato e che per questo ogni tentativo rivoluzionario assoluto, di fare come se questo limite non ci fosse, porta a una politica massimalista e oppressiva o, al limite, irenistica e infeconda.

Questo modo di vedere Resistenza e Liberazione ci impone quindi al tempo stesso un approccio profetico che intende superare i limiti del presente ma anche realistico, che sa di non poter evitare di utilizzare mezzi imperfetti, sfuggendo in una sorta di massimalismo etico.

Chiudo questo punto come l’ho aperto, ossia con un’ulteriore citazione di Pietro Scoppola, da “La nuova cristianità perduta” edita da Studium. Nella parte su «Disgelo conciliare e contestazione», segnalava che alcune arretratezze del cattolicesimo preconciliare si erano ribaltate a sinistra nel post concilio con forme «di terzomondismo emotivo, di spinta a sinistra incontrollata» che andava direttamente al confronto col comunismo saltando quello con l’area laico-liberale in nome di un rifiuto «del progetto capitalistico» basato su «una tendenziale lettura mondana dell’escatologismo cristiano» e rispetto ai rischi di pacifismo astratto e irenistico segnalava che “Non si costruisce la pace ignorando il conflitto o scavalcandolo con appelli alla concordia: la costruzione della pace esige la piena assunzione della realtà e della dimensione del conflitto”.

Quale pacifismo: realistico e responsabile, non astratto e ideologico

Questo concetto di Resistenza e di Liberazione obbliga pertanto a un discernimento sui concetti di pacifismo, analogo a quello operato da Emmanuel Mounier nel 1938, a favore di un pacifismo realistico e responsabile, non astratto e ideologico. Per questo mi è sembrato fondamentale, allo scoppio del conflitto in Ucraina, rieditare presso Castelvecchi il volumetto i “I cristiani e la pace” che è stato uno dei punti più alti della riflessione del cattolicesimo democratico, che anticipò in Francia e altrove, la scelta tutt’altro che scontata di adesione alla Resistenza, anche armata.

Quel concetto comporta il rifiuto di ogni aggressione, ma prevede anche l’assunzione di responsabilità e di realismo, in un’ottica di nonviolenza.

La nonviolenza, che non è resa ma combattimento attivo contro il male, esclude il pacifismo astratto e assoluto.

Il contrario di nonviolenza è appunto la violenza, non la forza, La nonviolenza non esclude a priori l’uso della forza. Ciò che distingue infatti forza e violenza è il ricorso al diritto: il diritto disciplina la forza, la regolamenta facendo riferimento a un’autorità legittima, ad una causa giusta (essendo la ace inseparabile da giustizia e libertà), ricorre al criterio di proporzionalità tra fini e mezzi.

Per evitare la guerra non si può escludere sempre e comunque il rischio di guerra, di ricorso alla legittima difesa contro la guerra.

Mounier anticipa in questo suo testo l’evoluzione più restrittiva del Magistero cattolico, lo slittamento da una visione troppo facile ed estensiva della guerra giusta che portava nel pre-Concilio alla legittimazione di qualsiasi conflitto che vedesse coinvolti la maggioranza dei cristiani (basti pensare alla Guerra civile spagnola) a quello più esigente della legittima difesa, come richiamato in seguito dalla Costituzione conciliare Gaudium et Spes e dal nuovo Catechismo. Più restrittiva, ma non per questo vittima di un capovolgimento semplicistico: perché non ci sarebbe certo discernimento se si passasse da una visione lassista, di semplice accettazione di qualsiasi conflitto armato, alla pura e semplice proibizione di qualsiasi forma di legittima difesa.

Pacifico non può significare imbelle o rassegnato

Qui occorre stare attenti a una distinzione fondamentale: la Chiesa cattolica ha un ruolo diplomatico importante. Il dovere di denunciare il male e gli aggressori, distinguendoli nettamente dagli aggrediti, non comporta che essa debba appiattirsi su un campo, su uno schieramento, essa deve avere dei margini per interventi di pacificazione, umanitari e non, oltre il giudizio specifico sulle cause e sulle responsabilità. Nel contempo, però, i cattolici impegnati in politica non sono, non possono essere degli emissari della diplomazia vaticana, dei meri ripetitori di quello che dice la Santa Sede, peraltro su questo come su qualsiasi altro terreno. Come non si può chiedere alla Santa Sede di aderire all’Unione europea o alla Nato, cosa che farebbe adempiere la profezia falsa dello sconto inevitabile tra culture e religioni così non si deve chiedere ai cattolici impegnati di essere neutralisti o ambigui nell’impegno nella collaborazione anche militare tra le democrazie. Occorre distinguere per unire. Come accaduto per esempio con la prima Guerra del Golfo, criticata dalla Chiesa per non essere percepita appunto come parte di uno scontro di civiltà rispetto a uno Statto islamico aggressore, ma sostenuta nelle principali democrazie europee dalla grande maggioranza dei cristiani impegnati in politica in quanto conforme alla Carta dell’Onu. L’unico intervento che in effetti ha rispecchiato pressoché tutti i criteri della legittima difesa sanciti dal diritto internazionale. Non si capisce pertanto perché etichettare come più naturalmente ‘cattolica’ la posizione di singoli parlamentari o movimenti cattolici rispetto all’assunzione di responsabilità di pressoché tutti i governanti europei provenienti da un reale vissuto nelle Chiese cristiane, dal centrodestra al centrosinistra arrivando anche a Yolanda Diaz di Podemos in Spagna.

I cardini della legittima difesa e il dovere della convergenza tra le democrazie

Sono noti, nonostante alcune letture semplicistiche, i cardini della nostra Costituzione: il ripudio della guerra è indissolubilmente legato alle limitazioni di sovranità degli Stati sovrani, ossia alla creazione di un ordinamento internazionale che tramite l’Onu e intese regionali (Unione europea, Nato) mira a prevenire la violenza e, nel caso, a reprimerla. L’articolo 11, per merito soprattutto dello sturziano Caristia e di Palmiro Togliatti, è l’articolo dell’unico comma e del punto e virgola, non del punto fermo, per non separare nessun modo il ripudio della guerra e la legittima difesa collettiva della scelta del multilateralismo democratico. A differenza del Preambolo della Costituzione della Quarta Repubblica da cui provenivano quei concetti, che li aveva presentati come consecutivi e quindi legati, ma separati da un punto fermo, loro vollero esplicitare quel legame in modo indissolubile col punto e virgola.

Come è ammessa le legittima difesa dell’Italia rispetto ad aggressioni esterne, tant’è che in quei casi la medesima Costituzione che prevede l’articolo 11, contempla all’articolo 78 anche la modalità definita dichiarazione di guerra, intesa evidentemente come difensiva, così la legittima difesa collettiva è demandata anzitutto alle istituzioni sovranazionali. Se si avallasse una lettura stratta e isolata del ripudio di cui all’articolo 11 si arriverebbe a una conseguenza paradossale di tipo sovranista-nazionalista: sarebbe legittimo difendere noi stessi dalle aggressioni anche nella forma solenne denominata Dichiarazione di guerra, ma non sarebbe legittimo contribuire a difendere altri aggrediti. Quanto di più distante dalla Resistenza italiana incardinata in quella europea, dall’opzione per il multilateralismo democratico, che è quella fatta propria dall’articolo 11. Il ripudio della guerra non è un principio opposto da bilanciare co i possibili interventi delle istituzioni internazionali ove necessari, ma è la base per edificare il multilateralismo democratico, fa tutt’uno con esso.

Il mondo post 1989 non è un mondo privo di minacce, l’espansione delle democrazie (gli unici regimi pacifici: nessuna democrazia ha mai attaccato un’altra democrazia) non è irreversibile né scontata. Alcune sue affermazioni ed espansioni provocano reazioni violente di regimi autocratici per il timore di contagio come nel caso dell’aggressione russa all’Ucraina. Siamo in un’ “era della divergenza” (come ben la ricostruisce V. E. Parsi nel suo recente libro su “Il posto della guerra e il costo della libertà”) che porta con sé la difficoltà di utilizzare l’Onu come sede efficace perché il Consiglio di sicurezza col potere di veto a potenze aggressive non è ‘contraignant’ come si era già visto all’epoca dell’aggressione serba in Kossovo a cui si dovette giustamente far fronte, in via sussidiaria, con l’intervento Nato.

Avremmo dovuto ricordarcene anche nel 2014, quando le deboli reazioni in termini di sanzioni alla prima aggressione russa all’Ucraina con la conquista della Crimea finirono per dare a Putin l’illusione di poter ripetere atti analoghi senza pagare un prezzo significativo. Lo aveva profeticamente scritto proprio in quelle settimane l’amico Giorgio Armillei, prematuramente scomparso un anno e mezzo fa, in un testo ora riedito nel volume postumo “La forza mite del riformismo”, dove aveva altresì ricordato l’omelia del cardinal Silvestrini, per anni alla guida della diplomazia vaticana, ai funerali di Nino Andreatta elogiandone la consapevolezza degasperiana nel comprendere che l’uso della forza non può essere a priori escluso di fronte ad aggressori, che non si può escludere a priori l’uso di mezzi imperfetti. Ed è per questa ragione che Paesi storicamente pacifisti e neutrali come Svezia e Finlandia hanno chiesto l’adesione alla Nato. Per Armillei (nel 2014!) eravamo già allora con l’aggressione in Crimea di fronte a un conflitto tra democrazie e autocrazie, che richiedeva una vigorosa reazione anzitutto della Nato, unica realtà in grado di rispondere con aiuti effettivi all’Ucraina. Cadevano quindi in errore quegli europei e quegli uomini di sinistra che proponevano in queste circostanze un mix tra una certa visione del cosiddetto primato della politica e un pacifismo irenico e neutralista. Viceversa Armillei richiamava, al di là degli scacchi subiti, al realismo cristiano di Obama, alla interiorizzazione dell’elemento tragico della politica internazionale che lo aveva ad esempio portato ad accettare l’operazione per l’eliminazione di Bin Laden.

Da questo approccio scaturiscono i doveri dell’oggi nel mondo della divergenza: potenziare la difesa comune europea, la gamba europea della Nato che non si affermò nel 1954 per la reazione nazionalista dei francesi, proseguire e rafforzare la stretta collaborazione con gli Stati Uniti e le democrazie consolidate. Suona alquanto antistorica la contrapposizione tra Unione europea e Stati Uniti, quando le istituzioni europee sono sorte dentro un disegno di stretta collaborazione euroatlantica, i una visione multilaterale in cui quelle due realtà non potevano e non possono essere viste come due poli separati. Ritorna qui quella che era stata nei primi anni Settanta una posizione del Partito Comunista Italiano, ma che allora era una posizione di apertura progressiva e comprensiva: prima si accettavano le istituzioni europee che ponevano problemi minori alla propria base, anche perché in Europa erano presenti grandi forze progressiste avvertite come vicine, e solo dopo sarebbe stato possibile accettare anche la Nato, come effettivamente avvenne. Fare oggi un percorso mentale a ritroso sarebbe decisamente antistorico.

La divergenza con le autocrazie impone la convergenza tra le democrazie, gli unici regimi che, con tutti i loro limiti reali, possono però connettere pace, libertà e giustizia. Per fortuna un anno fa abbiamo rieletto Sergio Mattarella, che di questo ha fatto e fa una pedagogia democratica costante.

*Vicepresidente di Libertà Eguale e Professore di diritto costituzionale comparato all’Università La Sapienza di Roma. È stato Senatore (dal 2008 al 2013) e poi Deputato (dal 2018 al 2022) del Partito Democratico. Già presidente nazionale della Fuci, si è occupato di forme di governo e libertà religiosa. Tra i suoi ultimi libri: “La transizione è (quasi) finita. Come risolvere nel 2016 i problemi aperti 70 anni prima” (2016). È il curatore del volume di John Courtney Murray, “Noi crediamo in queste verità. Riflessioni sul ‘principio americano’” , Morcelliana 2021.

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