Per volontà del Consiglio dei ministri e grazie a un decreto del capo dello Stato, la coraggiosa magistrata afghana Mareya Bashir non è più una rifugiata, ma una cittadina italiana. Era arrivata in Italia il 9 settembre, dopo una fuga rocambolesca iniziata ad agosto a Kabul, poche ore prima dell’ingresso dei Taliban nella capitale afghana, approfittando della validità del visto turco sul passaporto. Da Ankara si era messa in contatto con l’ambasciata italiana che le aveva rilasciato un visto Schengen. A Fiumicino l’aveva accolta con un abbraccio la Guardasigilli Marta Cartabia. E adesso, per decisione del Consiglio dei ministri e grazie a un decreto del capo dello Stato, Mareya Bashir, coraggiosa magistrata afghana, ha ricevuto la cittadinanza italiana per meriti speciali: «Sono grata dal profondo del cuore al presidente della Repubblica e al ministro della Giustizia – fa sapere lei stessa, ancora emozionata, dopo la decisione del Cdm –. Spero di poter lavorare di più per le donne afghane, con l’aiuto degli amici italiani».

Nata a Kabul nel 1970, Bashir si è opposta alle prepotenze degli integralisti sin dal 1996, quando era pm presso la procura generale. Costretta dagli integralisti a lasciare il lavoro e a fare la casalinga, ha reagito organizzando in cantina (fino al primo crollo del regime, nel 2001) una scuola clandestina per la figlia Yasaman e per le bambine del vicinato. Un’attività repressa dai fondamentalisti con ripetute irruzioni e con l’arresto di suo marito. Col ritorno della democrazia, è diventata procuratrice di Herat. E fra il 2006 e il 2015 si è battuta contro la corruzione e contro abusi come i matrimoni forzati fra anziani e spose-bambine di 9-10 anni, in applicazione della legge costituzionale afghana (che prevede per le nozze l’età minima di 16 anni). Un impegno che nel 2007 l’ha resa bersaglio di un attentato davanti alla porta di casa, in cui sono state ferite due guardie del corpo. «Si è sempre battuta per la costruzione dello stato di diritto e per la libertà e l’eguaglianza delle donne in Afghanistan», ricorda la ministra Cartabia. E conferendole la cittadinanza, conclude la Guardasigilli, «l’Italia vuole manifestare vicinanza a tutte le altre donne afgane, che continuano a lottare per i propri diritti, pagandolo a caro prezzo».

Nella foto: l’abbraccio tra la ministra Marta Cartabia e la magistrata afghana Mareya Bashir

La cittadinanza a Mareya Bashir (Maria, la chiamavano i nostri) è un atto che onora l’Italia. Nel 2014 l’Università di Sassari, la città che dà il nome alla brigata, le aveva dato la laurea ad honorem. L’avevo incontrata l’anno prima a Herat, e raccontata così: “Maria Bashir è a capo della procura di Herat. Si guadagnò ammirazione e odio nel 2005 indagando il marito-padrone di Nadia Anjuman, poetessa uccisa a 25 anni. A Herat spose bambine e giovani violate si danno ancora fuoco, o si impiccano. La nostra, dice, è la condizione di chi passa dal buio alla luce. Bisogna abituare gli occhi. Abbiamo vissuto una interminabile guerra intestina, subìto governi che schiacciavano le donne, ne spegnevano la voce. Mi chiede del reato che va sotto il nome di prostituzione: nel codice penale un rapporto sessuale a pagamento viene punito, e purtroppo anche fra due persone non sposate consenzienti. È la legge, poi c’è la nostra ragionevolezza. Abbiamo da 8 mesi un ufficio per le violenze domestiche, abbiamo mandato a processo 168 uomini. C’è una forte preoccupazione per il 2014 (quando era annunciato il ritiro della forza internazionale, nda) soprattutto per donne e bambini. Io continuo a meravigliarmi di trovarmi in questo posto. Mi riempio di farmaci mattina e sera, ieri ero attaccata a una flebo, subisco pressioni pesantissime. Due giorni fa ho fatto arrestare un notabile per corruzione, ieri mi ha chiamato l’uomo più potente di Herat e mi ha intimato di rilasciarlo entro le 10 di questa mattina, ha chiamato il governatore, il capo della polizia, tutti. Ha minacciato di far assediare il palazzo. Le cose che mi impegnano di più sono il narcotraffico, la corruzione, la mafia delle costruzioni, i sequestri. Come sono arrivata qui? Grazie ai miei genitori. Mia madre era un’insegnante di sartoria, ora sta in casa perché non vede più, prega per me. Mio padre dirigeva una banca. Ero la primogenita di una famiglia educata. Ho tre figli, una studia in Italia. Dice che gli italiani hanno lavorato bene, in particolare per donne, scuole, sanità. ‘La differenza, oltre alla cordialità, sta nel disinteresse. I loro aiuti non hanno un secondo fine’” (Adriano Sofri   Fonte: Il Foglio)

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