Riforma grafica e magazine per l’anniversario. Il racconto di Maurizio Crippa, “l’unico della banda ancora in servizio”

di Stefano Baldolini

Bisogna partire dalla grammatura della carta. Il Foglio compie 25 anni, è pronto a festeggiarli con un magazine (una tantum) e una nuova veste grafica, ne parleremo, ne abbiamo parlato con Maurizio Crippa, vicedirettore vicario “che è come dire senatore a vita”, “l’unico della banda ancora in servizio”.

Ma intanto, senza troppi fronzoli, bisogna parlare della carta “pesante almeno 3-4 volte di più”, delle prove di udito “per sentire se croccava, roba da sommelier”, dei “seminari infiniti” per decidere come cambiarla. Responso post degustazione: “Allora chiudo il giornale”.

Bisognerebbe partire da Vincino. “Ah, Vincino… ‘Giuliano’ ha detto che Vincino è stato dall’inizio la cifra grafica e stilistica del Foglio. Di un giornale il cui peso grafico all’inizio era circa zero”. Solo uno degli apparenti nonsense di una storia editoriale “fatta a matita, scarabocchiata, irriverente, ma mai grossolana nel tratto. E autoironica”.

Anzi no, partiamo da quel giorno di novembre – o era dicembre? – 1995 in cui “Giuliano”, enorme, appena 43enne ma già una mezza dozzina di vite all’attivo, si presenta nell’ufficio di via Victor Hugo, due passi dal Duomo di Milano.

Era inverno, – ricorda Crippa, che con garbo compie il suo dovere di “memoria storica” – si era concluso il Berlusconi I con lo stesso Ferrara ministro, l’Italia era ancora nelle macerie di Tangentopoli, il mondo nelle macerie del muro di Berlino. Eravamo in sei-sette. Giovani disoccupati organizzati. Fummo convocati da Sergio Zuncheddu, immobiliarista sardo, il nostro primo editore, che si era messo in testa di fare un settimanale di destra per contrastare l’Espresso. Aveva rilevato in affitto la testata del Borghese e stava provando a fare dei numero zero. In realtà sognava di convincere Giuliano Ferrara a esserne il direttore. Ma Giuliano nel frattempo con alcuni amici stava cercando un editore che gli finanziasse un giornale di un solo foglio, ‘bianco e volta’, gli articoli in prima pagina, tre editoriali dietro, niente firme, per parlare di politica, giustizia, economia, esteri. L’idea era di farlo pagare 500 lire, quando il Corriere ne costava 1000. A un certo punto le due strade si incrociarono. Ricordo che eravamo nell’ufficetto, si apre la porta, entra Giuliano Ferrara e dice: ‘Sono Giuliano Ferrara e farò il Foglio’. Due numeri zero, quattro riunioni, e il giornale è partito”.

L’avvio “alla garibaldina” nascondeva certezze, riferimenti forti, e timori fondati. Impianto alla Gutenberg. Formato broadsheet: il più grande possibile. La carta, ancora la carta che “non usava più nessuno perché ‘erano alberi buttati’”. “Lettering ispirato al vecchio Wall Street Journal, colonne di piombo, titoli brevi esplicativi, sommari, nessuna foto, grafica al minimo, un progetto al risparmio”. D’altronde, “avevano già fallito la Voce di Montanelli e l’Informazione di Pendinelli”. Dunque, solo sei redattori fissi e collaboratori esterni, “molti fuori dal mestiere”. Analisti finanziari, analisti politici, scrittori, “che mandavano magari solo appunti”. A parte le rubriche fisse, il giornale non era firmato, “c’era molto lavoro redazionale, tipo l’Economist”.

Uno degli aspetti paradossali per una testata che da un certo momento in poi ha iniziato a sfornare non poche firme. Lanciando allo sbaraglio – o in prima pagina – emeriti sconosciuti e sconosciute di successo. “Contavano le idee, e quando erano buone le si provava. Ci vollero un po’ di anni, ma è andata così. Del resto non è che poteva firmare solo Oriana Fallaci”. Il tema è la qualità. “Abbiamo più una scuola che delle firme”.

Già, i pezzi ‘da Foglio’, si dice nelle redazioni, croce e delizia, di giornalisti e lettori. Un codice? Qui Crippa si smarca. “Beh è un po’ troppo, non facciamo la Bibbia tutti i giorni. Cerchiamo di non dire l’ovvio, e di farlo anche su format lunghi, con diecimila battute. Ma non è che siamo più bravi, anzi secondo me sbrodoliamo anche troppo. Ma per dire delle cose, devi dirne anche tante. Sennò non ne vale la pena”.

Devi prenderti il tempo e lo spazio per fare quello che vuoi. C’entrano le ossessioni personali, anche periodiche. In primis del direttore certo, “che imbastiva le riunioni partendo da un pezzo della Frankfurter, e noi all’inizio ignari e terrorizzati, o da un dettaglio di cultura che ci portava a parlare per mezz’ora di cose che neanche finivano sul giornale”. Con Peppino Sottile che la chiudeva sempre allo stesso modo: “Va bene, il seminario è convocato alle cinque”. Ma c’entrano anche le fissazioni dei giornalisti, le passioni personali.

Siamo sempre andati dietro alle nostre follie: pensa al caso editoriale della Versione di Barney, o della campagna, giusta o sbagliata, contro La vita è bella, contro ogni chiave leggera della Shoah. O la scelta di pubblicare l’intera enciclica di Ratzinger”. Già, l’innamoramento per Benedetto XVI, una delle fasi ‘storiche’ del Foglio. Abbiamo provato a elencarle.

L’avvio sull’esaurimento della novità Berlusconi, “l’amor nostro”. Poi la fase sulla giustizia, che culminò con la candidatura al Mugello di Ferrara contro Di Pietro. “Perse meravigliosamente come fa sempre lui”. Poi arrivò l’11 settembre. E l’editoriale del giorno dopo: “A brigante, brigante e mezzo”. L’idea di una risposta forte all’aggressione. Il primo corrispondente, Christian Rocca, a New York. “Diventammo il bollettino atlantico di un’Italia che guardava altrove”. L’Usa Day e poco tempo dopo l’Israele Day, “quando ancora non si parlava di ritorno dell’antisemitismo”. Comunque erano gli esteri a prevalere: “la politica italiana era noiosa, meglio approfondire”.

Fino alla fase delle battaglie etiche: il referendum sulla legge 40 e la campagna contro l’aborto, lanciata dal direttore. “Avevamo capito che quei temi sarebbero diventati l’humus dell’Occidente”. Finalmente, Ratzinger, “e il suo illuminismo non nichilista”. Eccoci a giorni recenti, “al declino dell’amor nostro”, del Cavaliere.

Forse il punto morto” della storia. Un po’ di noia che fa capolino nella redazione “impossibile e plurale”, “di ex comunisti, ex socialisti, ex gruppettari”. Negli anni del crepuscolo di Berlusconi “la politica si era appannata, le battaglie culturali pure. Anche Giuliano sembrava un po’ stanco. Così ci inventammo altro, e parlammo di Mourinho. Ci sembrava un po’ di aria fresca rispetto al bunga bunga e Marco Travaglio”.

Poi – tra un Nazareno, un Renzi “nuovo riformista”, e conti e bisconti – l’aria fresca è arrivata davvero. Nuova proprietà e nuovo direttore, Claudio Cerasa. Una redazione di under 40. “Giuliano che il giorno prima ci parla della sua volontà di lasciare e il giorno dopo lascia”. Da allora, solo qualche visita di cortesia al giornale, che deve crescere da solo, senza “il monarca assoluto” che si limita a scrivere editoriali, recensioni, pezzi. Ma senza interferire sulla fattura del giornale. “Oggi sul Foglio c’è più politica, ma anche più leggerezza dei toni, forse siamo più pop, ma va bene così.”

Il giornale a impronta Gutenberg, ottocentesco e a colonne, oltre alla carta (“la carta quarto di nobiltà”) ha anche un sito, “dove senza essere snob, non possiamo neanche essere generalisti, né mettere gattini”. Dove arrivano lettori diversi, under 30, “che però cercano ‘Foglio’ come parola chiave”. Al posto dei ghirigori senza pretese dell’amico di sempre Vincino, “che si aggirava tra le scrivanie per prenderci in giro”, oggi c’è il tratto di Makkox. “Un altro stile. Ma ha intuito cos’è il Foglio, che tipo di satira, non pesante, ama”.

A capire cos’è il Foglio in questi anni ci hanno provato, ci sono riusciti, i suoi lettori, battezzati “i foglianti”, reminiscenza del gruppo rivoluzionario francese di tendenze moderate. Un altro bell’ossimoro della storia.

Siamo sempre stati un giornale club. Con un pubblico tutto suo. Ricordo quando festeggiammo il primo anno, c’era la coda per le scale. Migliaia di persone su una redazione di sei persone. Era nata una comunità”. Lettori che vogliono approfondire, a cui non interessa la cronaca spicciola. Senza ansia del ‘buco’: come quando – proprio nei primi numeri – “non mettemmo la notizia della Fenice di Venezia andata a fuoco”. “E avendola ‘bucata’, decidemmo di non seguirne le vicende nemmeno nei giorni successivi”. Quando venne ritirata su, “è stato tutto un cazzeggio: il Foglio è l’unico giornale al mondo per il quale la Fenice non è mai bruciata”.

Insomma era allora, nemmeno un secondo, ma “un terzo giornale”. Che ora nelle parole del direttore Cerasa aspira a diventare “il solo quotidiano” a entrare nelle case degli italiani: “Esaustivo, con più notizie in pagina”. Pagina che si presenterà “rinnovata e più pulita”. Ossia: carattere di stampa più grande e formato cartaceo di poco più piccolo. “Ma non di molto”, secondo Crippa, insomma non c’è da allarmarsi “non si stravolge più di tanto l’impianto”. Piuttosto, 25 anni dopo, “nessun tono celebrativo”, si raccomanda il ‘senatore a vita’. L’anniversario si festeggia con il lancio di un magazine, in regalo ai lettori, che ripercorre la storia d’Italia attraverso le pagine della testata. “Siamo cresciuti, è tutto lì. E siamo una storia viva. Abbiamo solo azzeccato la nicchia giusta”.

Fonte: www.huffingtonpost.it

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