di Manuel Orazi

A poco più di un’ora d’automobile verso sud-est di Tel Aviv, in direzione del deserto del Negev, c’è Beer Sheva, una città di circa duecentomila abitanti. Non è una meta turistica ed è difficile capitarci, se non di passaggio verso Eilat sul Mar Rosso. Eppure è un luogo estremamente significativo soprattutto per il sionismo che è alla base dello Stato d’Israele. Qui David Ben Gurion, il fondatore dello Stato, volle costruire un’università specializzata nello studio delle piante grasse e in generale a come coltivare il deserto. Fra l’altro per denotare gli ebrei nati in Israele si usa la parola “sabra” che significa fico d’India, una pianta grassa con le spine a indicare una certa ruvidezza caratteriale, compensata però dalla dolcezza dell’interno del frutto.

In età matura Ben Gurion si era convinto che Israele avrebbe dovuto svilupparsi verso sud, evitando così conflitti con le altre popolazioni autoctone arabe e no, stabilendo la sua residenza in un kibbutz poco lontano dove è anche sepolto accanto a sua moglie Paula. Nel 2004 insieme con Stefano Graziani ho visitato il monumento (nella foto) che lo scultore Dani Karavan ha realizzato su una piccola altura defilata da cui sono visibili però sia la città sia l’inizio del deserto. Il monumento è sia un complesso di sculture sia un tentativo di land art ed era sorvegliato da un beduino e da suo figlio – la minoranza più numerosa in città – e celebra la 12° Brigata Negev del Palmach, quasi sterminata durante una battaglia per l’indipendenza nel 1948.

Karavan, 89enne, ha studiato da ragazzo a Firenze, e fra il 1963 e il 1968 ha realizzato il monumento in cemento armato sull’onda del brutalismo modernista di quegli anni, nel 1966 per esempio realizzava un rilievo sempre in cemento all’interno dell’edificio della Knesset, il parlamento israeliano a Gerusalemme – nel 2016 fra l’altro chiese di coprirlo in segno di protesta contro la politica del governo Netanyahu. Nel 1994 ha onorato la memoria di Walter Benjamin con una poetica installazione a Portbou, la località catalana dove il filosofo in fuga si suicidò.

Visto che l’antico significato di Beer Sheva è “pozzo dei sette”, proprio per questo è stato luogo di molte battaglie per strappare l’acqua al nemico, fra l’altro anche durante la Grande guerra quando gli inglesi la strapparono agli Ottomani con una leggendaria carica di cavalleria, l’ultima della sua lunga storia. Per questo il complesso è dominato da una torre che ricorda una pipe-line di quelle che si trovavano un po’ dappertutto in Israele nel ’48, visto che l’acqua era la priorità assoluta per chi faceva Aaliyah, spuntano dappertutto anche nell’eccezionale reportage fotografico di Robert Capa per la Magnum del 1948-50.

Le altre stravaganti costruzioni sono forme astratte nello spazio, decorate da scritte in bassorilievo tratte dai diari degli oltre trecento caduti e dalla Torah. II clima secco ha favorito la conservazione delle strutture, mentre la luce solare così intensa esalta tutte le irregolarità del cemento in superficie e i bassorilievi in particolare. Non rappresentano nulla, ma attraversandole si ha la sensazione di essere in trappola, analoga a quella di chi cammina nelle trincee o in gallerie dove i tagli e i fori lasciano passare la luce negli spazi interni. Sono sculture che diventano architetture che vanno dunque percorse e non solo guardate. Nel 1969 Bruno Zevi sull’Espresso elogiò l’anti-simbolismo di quelle “strane figure, tradotte poi in terza dimensione in un arcano dialogo di totem”.

Fonte: Il Foglio

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