di Roberto Escobar

Polverose, puzzolenti, quasi sordide, così sono le stanze della cosiddetta sezione di statistica, dove il servizio segreto dell’esercito francese falsifica le prove che il 22 dicembre 1894 portano alla condanna del capitano Alfred Dreyfus (Louis Garrel). A quell’affaire lontano nel tempo, a quello scandalo politico e militare a sfondo antisemita torna ora L’ufficiale e la spia (Francia e Italia, 2019, 126′). In originale il film si intitola J’accuse, come la lettera aperta che, dando inizio all’engagement novecentesco degli intellettuali, il 13 gennaio 1898 Emile Zola indirizza dalla prima pagina di «L’Aurore» a Félix Faure, presidente della Repubblica Francese.

Ed è di nuovo un’accusa, questa di Roman Polanski e del cosceneggiatore Robert Harris: un’accusa che già si mostra nello sporco di quelle stanze dell’Armée contrapposto alla retorica tronfia delle corti marziali, dei generali e del ministro della guerra, Auguste Mercier (Wladimir Yordanoff). La colpa di Dreyfus è di essere ebreo. Accusato ingiustamente di avere passato informazioni militari ai tedeschi, viene condannato e deportato sull’Ìle du Diable, al largo della Guyana, da dove torna nel 1899 per essere di nuovo processato e condannato. Nel 1906, quattro anni dopo la morte di Zola, è riconosciuto innocente, ma in Francia continua la campagna di odio contro di lui.

Polanski racconta l’affaire con un film intenso e lineare, didattico nel significato migliore, scegliendo come punto di vista non quello della vittima, ma quello del tenente colonnello Georges Picquart (Jean Dujardin). Nominato nel 1895 responsabile della sezione di statistica al posto del maggiore Jean Sandherr (Eric Ruf), Picquart è antisemita, ma “non fervido”. Così lo definisce Polanski. Il suo disprezzo non arriva all’odio, e non arriva a negare il senso di onore e giustizia. E con un senso di onore e giustizia molto diverso dal suo si deve confrontare dopo avere scoperto gli inganni, le falsificazioni e i silenzi colpevoli tanto di Hubert-Joseph Henry (Grégory Gadebois), suo immediato sottoposto, quanto dello stato maggiore dell’Armée. Per il tenente colonnello Henri l’onore e la giustizia stanno dentro l’esercito, solo dentro l’esercito. Se l’esercito mi ordina di uccidere un uomo, dice orgoglioso e sicuro a Picquart, io lo uccido, e se anche fosse un errore, io non ne avrei colpa. Picquart gli dà la sola risposta che si possa definire civile, e morale: questo è forse il suo esercito, non il mio.

Il cuore di L’ufficiale e la spia sta in questo confronto. Da un lato c’è il senso d’appartenenza, la certezza che il gruppo o la “razza” siano il luogo d’ogni moralità e d’ogni valore, e che il singolo non ne sia che un momento trascurabile, sostituibile, senza dignità per se stesso. Dall’altro c’è il dubbio, la capacità e il coraggio di mettere in dubbio appartenenza e valori, affrontando la fatica e i pericoli della libertà. Chi come Picquart scelga questo lato del confronto diventa egli stesso “pericoloso” per il gruppo o per la razza. Chi invece come Henri e tanti altri come lui – non solo negli anni 90 dell’Ottocento – stia rinchiuso nel gruppo o nella razza, è a disposizione dell’odio, pronto a uccidere se glielo si ordina, convinto che il suo lavoro sporco sia per l’onore e la giustizia. Fuggito dal ghetto di Cracovia nel ’43, a dieci anni, e con una madre morta ad Auschwitz, Polanski sa di quale sporco si tratti.

Fonte: Il Sole 24 Ore, 24 novembre 2019

Foto: 01 Distribution

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