Nel 1942 Cioffi si lanciò con la sciabola contro i mitragliatori sovietici a Isbuscenskij

di Beppe Boni

Classe 1921, nato a Milano, grado sergente maggiore, nome Giancarlo Cioffi (nella foto). A Isbuscenskij, teatro dell’ultima romantica carica di cavalleria italiana nella campagna di Russia, c’era anche lui, il sottufficiale poi diventato architetto alla fine del conflitto. Fra i superstiti tornò in Italia anche il cavallo che montava nell’Armir. Si chiamava Violetto e morì anch’egli di morte naturale. Gagliardo fino alla fine, il sergente se ne è andato a 98 anni e la notizia in breve ha fatto il giro d’Italia passando dai reparti militari eredi della cavalleria di cui Giancarlo Cioffi è stato un simbolo vivente in questi anni, insieme agli altri due ultimi reduci di quella pagina di guerra e di storia. Cavalieri contro mitragliatrici e artiglieria, spade sguainate, faccia al sole e galoppo verso il nemico. Una sbiadita cartolina in bianco e nero della campagna di Russia entrata nella leggenda.
Il sergente Cioffi è rimasto un cavaliere tutto d’un pezzo fino alla fine. In un documentario sull’ultima carica narrato da egli stesso dice: «Indossai la prima uniforme da bambino nel 1928 e da allora non me la sono mai levata. Quando scoppiò la guerra pensai che anch’io dovevo fare ciò che potevo e quindi mi arruolai nel Quarto squadrone del Reggimento del Savoia cavalleria (ora incardinato nella Brigata paracadutisti Folgore ndr) che aveva sede a Milano».

Era il gennaio 1941, l’Europa era già in preda alle convulsioni della guerra. Giancarlo Cioffi ha visto la morte di decine di compagni, ha sofferto il gelo, ha vissuto fatica e ardimento, ha camminato nella neve e nel ghiaccio sopportando sangue e lacrime. Ma non si è mai spezzato. Su YouTube continua ad avere migliaia di visualizzazioni il docufilm dove il sergente architetto racconta gli anni della gioventù e quell’ultimo assalto a cavallo nella steppa. Lui quel giorno finì di combattere a piedi, dopo che il comandante fece scendere di sella tutto il Quarto squadrone per rinforzare il fuoco da terra, coprendo così le spalle agli altri cavalieri lanciati verso i soldati con la stella rossa sull’elmetto.
Nel filmato Cioffi narra anche l’inizio dell’avventura in grigioverde, quando uscì dalla caserma con la mantella d’ordinanza a cavallo, sotto una pioggia furibonda con un biglietto di sola andata per il fronte russo.
Del reparto che prese parte alla carica di Isbuscenkij, oltre al mitico comandante Alessandro Bettoni Cazzago, grande cavaliere nelle competizioni ippiche, fecero parte altri nomi come Giancarlo Conforti l’uomo, come ricorda il giornalista scrittore Umberto Martuscelli, che nel dopoguerra ricostruì il salto a ostacoli azzurro, poi il futuro giornalista sportivo Luigi Gianoli, Silvano Abba, comandante del quarto squadrone forte pentatleta medaglia di bronzo ai giochi di Berlino del 1936.

Il 24 agosto 1942 era una giornata calda e l’ansa del fiume Don era lì a due passi. Il reggimento Savoia cavalleria con un organico di 700 uomini aveva appena bivaccato in mezzo alla steppa, protetto dagli obici della Voloire. Alle prime luci dell’alba si preparava a riprendere la marcia sulle sponde del fiume verso un anonimo punto denominato quota 213. Una pattuglia in avanscoperta si accorse che le truppe dell’812esimo Reggimento siberiano li avevano quasi circondati. I russi cominciarono a sparare, gli italiani risposero al fuoco e in breve il comandante Alessandro Bettoni Cazzago, appena sfiorato da un proiettile che gli bucò il cappotto, ordinò al Secondo squadrone di partire con la prima carica a sciabole sguainate e lanciando bombe a mano. Poi via via gli altri. Alle 9,40 era tutto finito. Rimasero uccisi 34 soldati italiani e cento cavalli, i sovietici lasciarono sul campo 150 morti e dovettero parzialmente arretrare. L’attuale comandante del Savoia, colonnello Ermanno Lustrino ricorda così il sergente Cioffi: «Era sempre presente alle celebrazioni dell’ Arma di cavalleria. Siamo tristi per averlo perso, ma felici che Dio ce lo abbia conservato così a lungo: non ho mai conosciuto nessuno che con uno sguardo soltanto riuscisse a trasmettere tanta forza». Gli occhi del sergente erano di un celeste intenso, come il cielo di Russia nell’agosto 1942.

Fonte: Quotidiano Nazionale, 1 maggio 2019

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