Il primo ad utilizzarla è stato il generale Walter Piatt, di stanza in Iraq: ogni mattina, prima di avviare le operazioni militari, si metteva in meditazione, con respiri profondi, fissando una palma. Adesso la pratica del «mindfulness», una variante della meditazione orientale, si sta diffondendo nell’esercito americano e in quello di alcuni alleati. Lo scorso inverno i soldati di stanza nelle Hawaii hanno usato la meditazione per migliorare le qualità nel tiro. La marina reale britannica ha utilizzato le tecniche di «mindfulness» per addestrare gli ufficiali al comando, così come in Nuova Zelanda, mentre il ministero della Difesa olandese ci sta pensando. Ed è arrivata alla fine anche la Nato che ha organizzato un simposio di due giorni, a Berlino, per analizzare i benefici che la meditazione può portare nella vita dei soldati dentro e lontano dal fronte.

Un gruppo sempre più crescente di ufficiali consiglia questa pratica ai veterani, per aiutarli a convivere con i traumi della guerra ricercando la pace della mente. «C’è uno stereotipo», spiega il generale Piatt, «per cui la meditazione ti rende debole. In realtà, è il contrario». L’approccio è basato sul lavoro di una professoressa di psicologia dell’Università di Miami, Amishi Jha, autrice di un libro sugli effetti positivi del «mindfulness».

L’associazione tra «guerrieri» e «meditazione», tra armi e fiori di loto, è più frequente di quanto possa sembrare: le pratiche di respirazione e astrazione sono usate anche tra i giocatori di football. Tra i militari è meno diffuso, ma ancora per poco: secondo fonti militare americane, un terzo dei soldati interpellati si è dichiarato entusiasta all’idea di provare. Gli ufficiali ritengono la meditazione uno strumento in più, che porta due vantaggi: aiuta a focalizzarsi sugli obiettivi in maniera migliore rispetto al passato, ed è una qualità mentale che si può trasmettere.

Fonte: La Stampa, 8 aprile 2019

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