Elogio di Milena Gabanelli e del suo giornalismo abrasivo che la Rai vuole lasciare senza avvocato

Che fine hanno fatto i discendenti degli ammutinati del Bounty?, si chiese un giorno Milena Gabanelli, giornalista freelance laureata in Storia del cinema al Dams e neocollaboratrice di Giovanni Minoli a “Speciale Mixer”. Che fine hanno fatto i soldi provenienti dalle lotterie e destinati alla ricostruzione dell’Aquila?, si è chiesta Milena Gabanelli un mese fa, presentando una delle inchieste del suo “Report”. Cambia l’oggetto delle domande, cambia il contenuto dei “perché?” pronunciati in apertura d’inchiesta da Gabanelli in tinta unita su sfondo nero, con capelli corti e sorriso raro, ma il programma dagli anni Novanta è lì, alla Rai, laboratorio permanente di videogiornalismo: tu da solo con la tua telecamera, tu che hai un’idea, la proponi, la realizzi, ti paghi le spese e poi vendi all’azienda senza intermediari.

Tu che lavori da autonomo sotto il marchio “Report” (prima era “Professione reporter”) e che per questo puoi starci pure tre o quattro mesi, su un’inchiesta: segreti di stato, bancarotte, manovre industriali, rifiuti radioattivi, mafie, abusi, guerre, ospedali, regioni, città, diritti, doveri, giornali, Siae, farmaci e automobili (perché usare i Suv al di fuori di una landa allagata e semitropicale?, si è chiesto giustamente “Report” un giorno, con chiara nostalgia per la tremebonda Cinquecento).

“Report”: quattordici anni di giornalismo investigativo con un pallino per i cosiddetti poteri forti (marci?), per le cricche e per le caste, ma anche con un’equa attitudine a bastonare gli assistenzialismi d’ogni colore (ne fecero le spese pure i cinematografari). Né si può dire che Gabanelli, beniamina dell’Espresso e giornalista di sinistra, voglia risparmiare gli amici: ha messo sotto accusa pure la Bologna dei veleni, e si sa che a Bologna Gabanelli la lombarda ha studiato e messo su casa (oltre a far sognare al Pd, per lei, una candidatura a sindaco).

Dici “Report” e tutti, istintivamente, si tolgono il cappello, tanto Gabanelli si è conquistata la fama di documentatissima professionista che dalla Cambogia è passata alla Cecenia e dall’ex Yugoslavia al Mozambico. I suoi reporter nondimeno accumulano riconoscimenti, se è vero che a Sabrina Giannini nel 2001 è andato “il prestigioso Banff Rockie Award” per il servizio “Ipocrisia di stato” e a Bernardo Iovene nel 2007 un premiolino con motivazione inoppugnabile: “… secondo la giuria può essere definito ‘il Tenente Colombo del giornalismo italiano’, per la capacità di affrontare i protagonisti delle sue inchieste mettendoli nella condizione di rivelare le malefatte”. Non si contano, poi, i premi “Ilaria Alpi”, “Saint-Vincent” e “Cultura Civica” nei curricula degli altri videogiornalisti del programma (il coautore Sigfrido Ranucci, Stefania Rimini, Giovanna Boursier, Michele Buono, Emilio Casalini, Luca Chianca, Giorgio Fornoni, Giuliano Marrucci, Paolo Mondani, Alberto Nerazzini, Piero Riccardi).

“Se la Rai si lascia sfuggire Milena Gabanelli può chiudere bottega”. L’ha scritto Aldo Grasso sul Corriere della Sera, il 7 giugno, parlando di “Report” come “dell’unica tra le trasmissioni di successo” che conserva “la missione di servizio pubblico nella sua accezione più alta, di indagine e di senso civico”. Senza “Report”, dice Grasso, la Rai “faticherebbe non poco a giustificare il canone”. E però, a due settimane di distanza, c’è Milena Gabanelli che respinge la bozza di contratto Rai perché “irricevibile” e dice “stavolta meglio appoggiarsi a un avvocato”. Motivo: manca la clausola di “manleva” con cui la Rai assicura di farsi carico di ogni eventuale contenzioso legale (raro) che possa sorgere dalle inchieste gabanelliane. Anche perché a volte “Report” ci va giù pesante (e scivola?): a fine 2010 ha picchiato duro su Giulio Tremonti. Il ministro ha presentato un esposto. L’Agcom ha chiesto una puntata di compensazione. Risultato: una reporter che chiede ad Alberto Quadrio Curzio un giudizio favorevole sull’azione del governo.

Lasciarsi sfuggire Milena Gabanelli? Magari l’intenzione non è questa, ma certo “Report” senza tutela legale non può farsi “Report”. E sarebbe un peccato: la trasmissione fa audience con temi non ridanciani in prima serata (nove, dieci, a volte anche dodici e quattordici per cento) e fa del costare poco un vanto (l’obiettivo, dicono a “Report”, è sempre stato “il massimo risultato nonostante i mezzi scarsi”). E magari si prenderanno troppo sul serio. E magari sembreranno a volte un po’ di parte. E magari hanno il mito del Watergate e l’odio facile per le ville ad Antigua. E però viva la faccia.

Marianna Rizzini, 22 giugno 2011

Fonte:  Il Foglio

 

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