di Vincenzo Pelvi *

L’Ordinariato militare festeggia il 2 giugno. La pace, «atto di carità, non un problema impersonale»

 

Non esistono interventi armati «puliti». L’affermazione circolata sulla stampa in questi giorni provoca amarezza e disagio. C’è sempre chi invoca lo scioglimento degli eserciti, l’obiezione contro le spese militari, l’abolizione di organismi internazionali per la pace. Eppure l’istituzione militare paga il prezzo più alto dinanzi al risveglio di nazionalismi inediti e a quella tendenza a far prevalere interessi di parte sul bene comune della famiglia umana.

Sì, perché, gli uomini con le stellette hanno uno sguardo lungimirante sulla storia senza vani rimpianti o mitiche utopie. Sanno che la vita è un dono e la dignità umana va difesa e custodita. Kosovo, Libano, Afghanistan, Haiti, Libia, Lampedusa sono la testimonianza delle mille forme di accoglienza e non di respingimenti, di rispetto e non di esclusione, di costruttivo dialogo e non di superficiale discriminazione.

L’Italia, con i suoi soldati, continua a fare la sua parte per promuovere stabilità, disarmo, sviluppo e sostenere ovunque la causa dei diritti umani. Perciò è giusto intensificare le iniziative di cooperazione internazionale e partecipare alle missioni delle Nazioni Unite in aree di crisi. Procedendo con ragionevolezza e guidati dalla carità e dalla verità, il mondo militare contribuisce a edificare una cultura di responsabilità globale, che ha la radice nella legge naturale e trova il suo ultimo fondamento nell’unità del genere umano.

Di qui l’esigenza di una rinnovata attenzione a quella «responsabilità di proteggere», un principio divenuto ragione delle missioni internazionali. Se uno Stato non è in grado di proteggere la propria popolazione da violazioni gravi e continue dei diritti umani, come pure dalle conseguenze delle crisi umanitarie, provocate sia dalla natura sia dall’uomo, la comunità internazionale è chiamata a intervenire, esplorando ogni possibile via diplomatica e prestando attenzione e incoraggiamento anche ai più flebili segni di riconciliazione.

Nonostante la lacerazione dell’animo, il militare, agli indirizzi egoistici e miope convenienza, pagando con la vita, risponde con un servizio a vantaggio di tutto l’uomo e di ogni uomo, diventando protagonista di un grande movimento di carità nel proprio Paese come in altre nazioni. La pace è un atto di carità e non può essere trattata quasi fosse un problema impersonale, alla maniera di tematiche scientifiche.

Essa consiste nel sacrificare all’altro – straniero o nemico – il tutto della propria individualità, per dargli l’attenzione della mia persona e rendere omaggio a quella parte di verità, di giustizia o di umanità che egli porta in sé. «È ovvia in questa prospettiva ideale eppur realistica, l’esigenza di una conseguente trasformazione delle Forze Armate nazionali in un supporto a quella solidarietà internazionale, che la Chiesa auspica» (Giovanni Paolo II ai militari, 2 aprile 1989).

La sfilata in via dei Fori Imperiali, a 65 anni dalla nascita della Repubblica, resa più significativa dalla coincidenza del 150° dell’unità d’Italia, possa diventare l’invito a cambiare il modo di vedere le situazioni ed essere generosi, concreti e determinati sulle questioni della solidarietà e della democrazia. (2 giugno 2011)

 

* arcivescovo ordinario militare per l’Italia

 

Fonte: ordinariato.it

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