Morto a 90 anni il giornalista che fu capo ufficio stampa di Pertini e di Craxi. Una vita tra politica, storia e calcio

Antonio Ghirelli riceveva al caffè Greco di via Condotti a Roma. Girava lungamente il cucchiaino nella tazzina e raccontava. «Siamo stati lottizzati di classe», diceva. Aveva infatti una sua teoria, che difendeva gettando gli occhi strabuzzati oltre le lenti spesse come vetrine: «Bettino Craxi non mi fece alcun favore nominandomi direttore del Tg2. Fui io a farlo a lui». E così ogni mattina raccontava un po’ di vita, un po’ della sua lunga e crepitante vita cominciata a Napoli nel 1922 e conclusa ieri a Roma.

Il Novecento era tutto sulla sua pelle, il fascismo che gli gonfiava il petto di ragazzo, la lotta partigiana che lo portò incontro agli americani sbarcati a Salerno proprio alla vigilia delle mitiche, molto mitiche Quattro giornate di Napoli: «Noi andammo a liberare Vico Equense e il podestà, che si era già fatto sindaco, ci accolse esultante con latte e uva»; gli americani gli misero un microfono in mano, insieme con Misha Kamenetzky (il nome vero di Ugo Stille), Arnoldo Foà, Raffaele La Capria e tanti altri organizzò la Radio d’Italia libera, via via che veniva liberata. «Con Tommaso Giglio salimmo a Bologna e lì incontrammo un ragazzetto a cui non si sarebbe dato un soldo, ma si dimostrò sveglio e volitivo. Si chiamava Enzo Biagi. Lo assunsi». Fu Biagi ad annunciare alla città la cacciata dei nazisti, e si festeggiò improvvisando una partita di calcio di cui il punteggio non interessava a nessuno: il divertimento era nel dare di fascista all’arbitro. Ghirelli, che aveva in tasca la tessera del Pci, diceva che mai più avrebbe ritrovato un editore rispettoso come la Quinta Armata.

C’era già tutto: la politica, la storia, il calcio. Parlava di Hasse Jeppson, e di come lo convinse a passare dal Napoli al Torino, con lo stesso distaccato trasporto con cui parlava di Sandro Pertini, e del disastro di una trasferta spagnola, nel 1980, quando uscì la notizia che il Presidente della Repubblica avrebbe accettato le dimissioni di Francesco Cossiga, ministro dell’Interno, e Ghirelli se ne prese la colpa e si dimise. Passò subito a Palazzo Chigi, capo ufficio stampa di Craxi. Era diventato socialista nel 1956, dopo l’invasione di Budapest, ma nel Pci aveva conservato «ottimi rapporti con Napolitano, Valenzi, Geremicca…». Gli piaceva parlare di Pertini: «Era esattamente il contrario di quello che si pensa: un eroe, coraggiosissimo, rancoroso, odiava tutti, da Craxi a Nenni a Lombardi». E di Craxi: «Era un socialista vero, aiutava i compagni in tutta Europa, sapeva essere sprezzante e sapeva commuoversi». Non aveva paura di un’idea, Ghirelli. Di Silvio Berlusconi parlò così, a Claudio Sabelli Fioretti: «Sono disgustato da questo tentativo di criminalizzare Berlusconi. Ma non sarò mai del partito dei miliardari». Ecco perché era un lottizzato di classe, perché non subì i suoi decenni ma li condizionò. Quando tutti, specialmente i comunisti, erano ostili a Enzo Tortora, il Tortora a cui Marco Pannella aveva teso la mano, fu Ghirelli a intervistarlo al Tg2, e per sei minuti, e nonostante la rabbia incontenibile del direttore generale democristiano Biagio Agnes.

Scrisse molti libri, di calcio, di politica, di storia e uno è rimasto impresso più di altri, Tiranni (Mondadori, 2002), nel quale ricostruì la personalità e il consenso dei grandi dittatori del secolo scorso, Stalin, Hitler, Mao, Pol Pot, fino a Mussolini a cui lui – una carriera nata sull’antifascismo – riconobbe una diversità che lo rendeva migliore, o meno peggiore, dei colleghi. Un lottizzato di classe perché diresse l’ Avanti! , il Tg2, ma anche il Corriere dello Sport eTuttosport , un eclettismo spettacolare, dalle traduzioni dei fumetti di Topolino a un demolitorio reportage dal Cile del 1962: «I taxi sono rari come i mariti fedeli. Un cablogramma per l’Europa costa un occhio della testa. Una lettera aerea impiega cinque giorni». I cileni si offesero a morte e dichiararono guerra alla nostra nazionale, che arrivò per i Mondiali di calcio e se ne andò molto presto, dopo aver perso due a zero coi padroni di casa sospinti dal pubblico e dall’arbitro. E le raccontava bene, queste cose, una a una, piano piano, con mezzo sorriso che non era di rimpianto, ma ironico, lontano, pacificato, com’è che alla fine dev’essere.

Mattia Feltri, 2 aprile 2012

Fonte: La Stampa

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